venerdì 31 maggio 2013

L'ANGOLO TECNICO: NFL BASICS







Benvenuti nel mio angolo tecnico! All’interno di questo spazio vi porterò alla scoperta del gioco più famoso degli USA, vedremo un po’ di tattiche principali delle squadre NFL e cercheremo di capire qualcosa in più delle dinamiche di gioco che avvengono sul campo da football. Vedrò di essere il più semplice possibile così che ognuno possa capire senza eccedere in tecnicismi.
Prima di tutto questo però è bene che vi spieghi i rudimenti del gioco e la lega principale di riferimento: la National Football League.

Composta da 32 franchigie, la NFL nasce nel 1920 per poi fondersi con la lega rivale, la AFL, nel 1970, dando vita all’organizzazione attuale. Le squadre sono divise in due “conference” principali: la AFC e la NFC. All’interno di queste due, i team sono ulteriormente distribuiti in “division”: North, South, West e East per un totale di otto division, quattro per conference.

Il campionato inizia a settembre con la regular season che consta di 17 giornate, di cui sedici di gioco e una di riposo. Si gioca sempre nel week-end ed il lunedì e ogni squadra, almeno una volta ogni quattro anni, si confronta con tutte le altre. Alla conclusione della stagione regolare iniziano i play off, a cui accedono sei squadre per conference, le quattro vincitrici di division e la quinta e sesta della conference. I play off si articolano in “Wild Card Round”, dove si affrontano la quinta e la sesta contro la terza  e la quarta, in “Divisional Round”, dove prima e seconda affrontano le vincitrici del turno precedente, nella finale di conference e infine nell’evento più atteso e seguito in America: il Super Bowl, in campo neutro, tra la vincitrice della AFC e quella della NFC. 

Detto della lega scendiamo in campo.



 

Il football americano si gioca in 11 contro 11, con cambi illimitati, su un campo lungo 120 yards (110 metri), comprese le due aree di meta, le “end zones”, di 10 yards ciascuna, e largo 53,5 yards (49 metri). Alle due estremità sono situate le due porte, a forma di “U” che vengono utilizzate come riferimento per i calci piazzati, i “field goals”. Si gioca con un pallone di forma ovale allungata con delle evidenti cuciture su un lato, le quali servono per una presa migliore. Ci sono quattro quarti di 15 minuti, con un intervallo, anch’esso di 15 minuti, tra il secondo e il terzo.

Le franchigie NFL sono composte da 53 giocatori, perché ognuna è formata da tre squadre, con rispettive riserve, all’interno dello stesso team: quella offensiva, quella difensiva e lo “special team”; quest’ultimo scende in campo in tutte quelle azioni in cui si calcia la palla.

Il match inizia con il “kick off”, un calcio eseguito dalle proprie 35 yard. Tutti i compagni del giocatore che esegue il calcio, il “kicker”, devono trovarsi dietro al pallone. La squadra che riceve la palla giocherà in attacco e il gioco incomincerà da dove è stato fermato l’ovale, oppure, se supera la end zone, si parte dalle proprie 20 yard. Chi attacca ha quattro tentativi, i “down”, per riuscire ad avanzare almeno di 10 yards. Durante il down la palla, che viene posizionata sulla “linea di scrimmage”, può essere passata in avanti solamente una volta mentre la si può passare all’indietro senza limitazioni. Superate le 10 yards si ottengono altri quattro tentavi per portarsi in avanti. Nel caso in cui non si riuscisse ad oltrepassare le 10 yards nei quattro down a disposizione, la squadra che ha attaccato va in difesa, quindi esce l’”offensive team” ed entra il “defensive team”, e viceversa.

Se la squadra in possesso della palla giunge nella end zone avversaria si realizza un “touchdown”; questo vale 6 punti e dà diritto ad un “extra point”. Quest’ultimo può valere un punto se viene calciato in mezzo ai pali da una linea a 2 yard dalla end zone, oppure due punti se è portato in meta con le mani dal medesimo punto di partenza. Quando si è segnato un touchdown si riprende con un kick off da parte del team che ha segnato, dunque a ricevere palla sarà la squadra che ha appena subito il touchdown. Ci sono anche altri metodi per segnare: calciare un field goal, che vale 3 punti o placcare l’avversario nella sua area di meta, realizzando quindi una “safety”, che vale 2 punti.  Nel caso in cui la squadra in attacco sia al terzo down e non sia ancora riuscita a coprire le 10 yards, spesso si esegue un calcio di spostamento, chiamato “punt”, che cercherà di far ripartire la compagine avversaria il più lontano possibile.

Prima di ogni azione, i giocatori si riuniscono in raggruppamenti, detti “huddles”, ove il capitano comunica la giocata da effettuare.

In campo ci sono ben sette arbitri, poiché i numerosi contatti corpo a corpo, anche molto duri, rendono necessario un severo regolamento. Nel caso in cui un giocatore commetta un fallo, ce ne sono di tantissimi tipi, l’arbitro lancia per terra un fazzoletto, la “flag”, di colore giallo che comporta una perdita di 5 o 10 yard a seconda dei casi.

Queste sono proprio le basi da cui partire per capire il gioco del football americano, ovviamente ci sono molti altri aspetti, anche complessi, che avremo modo di vedere successivamente. Per ora iniziamo ad allenarci con quanto visto e, mi raccomando, vi aspetto preparati alla prossima lezione sulla NFL!












mercoledì 29 maggio 2013

THE BLIND SIDE





Coloro che hanno visto il film “The Blind Side”, col premio Oscar Sandra Bullock, potrebbero già intuire cosa sto per raccontarvi. Quando si pensa al giocatore più pagato di una squadra di football americano, tutti pensano subito al quarterback, il che è esatto, poiché è colui che comanda l’attacco ed è sempre molto pubblicizzato dagli sponsor e dai giornalisti. Quando però si viene interrogati su chi sia il secondo più pagato, alcuni azzardano i receivers, altri i linebackers,  ma a pochi viene in mente che sia un membro della offensive line. Si, esatto, proprio uno di quei bestioni che giocano con grande intensità per tutti i 60 minuti della gara, che quasi nessuno considera, che non compaiono mai negli highlights, che non ricevono mai premi importanti eppure sono fondamentali per le fortune del quarterback e di tutta la squadra. Stiamo parlando del tackle sinistro.

Il left tackle è colui che nella linea offensiva si posiziona più a sinistra dei cinque, è solitamente il miglior bloccante per i passaggi, infatti ha un gioco di piedi eccellente e una grande agilità che gli permettono di essere rapido a contrastare i difensori avversari, pur essendo un giocatore alto 2 metri e pesante 140 chili in media, ha mani enormi, braccia lunghe, fianchi possenti, grande forza ed il suo compito principale, nonché uno dei più importanti, se non il più importante, dell’intero gioco del football americano è proteggere il lato cieco del quarterback. Quando infatti questi è destrorso, il che rappresenta la maggioranza dei casi, nelle azioni di lancio è costretto a voltare la spalle ai difensori provenienti da sinistra, diventa perciò fondamentale che il left tackle offra la necessaria protezione per evitare un sack o un fumble. Per sottolineare l’importanza che hanno questi giocatori, basti pensare che al draft, una delle prime cinque chiamate è comunemente un left tackle, come è dimostrato recentemente nel 2007, 2008, 2010, 2012 e 2013, con quest’ultimo che ha la peculiarità di averne avuti tre nelle prime quattro chiamate.

La grande rilevanza all’interno degli schemi offensivi che ha assunto questo ruolo è però abbastanza recente. E’ stato un solo giocatore infatti, a cambiare radicalmente la tattica dei bloccaggi a protezione del quarterback, un giocatore che viene considerato come il più grande difensore che la NFL abbia mai visto, colui che modificò il modo di giocare delle difese e degli attacchi: l’outside linebacker Lawrence Taylor.

18 novembre 1985, Monday Night Football, al Robert Francis Kennedy Memorial Stadium di Washington si sta giocando l’undicesima giornata di campionato, i locali Redskins affrontano i New York Giants. Secondo quarto iniziato da appena 43 secondi, il quarterback dei Redskins, Joe Theismann, chiama una “trick play”. Ricevuta la palla dal suo centro, la dà al running back, John Riggins, che corre verso la linea offensiva, è una finta però. Riggins si volta e ripassa la palla a Theismann che inizia a correre in avanti, il linebacker Harry Carson, uno dei migliori della lega, si muove rapido per placcarlo, ma la stella dei Redskins, con un abile movimento di corpo, riesce a scrollarsi di dosso il difensore e guadagnare due o tre yard in più. Quand’ecco che cala il buio. Lawrence Taylor, 109 chili di muscoli d’acciaio, è il più terrorizzante atleta della NFL. Fino ad ora il gioco è definito dalla visuale del quarterback ma dal suo lato cieco sta per arrivare una forza devastante. Taylor si avventa su Theismann come una tigre si scaglia sulla la sua preda, lo afferra per le spalle e lo trascina a terra con la forza di un uragano. Crack. Nella caduta il ginocchio di Taylor involontariamente piega la gamba di Theismann che rimane sotto il suo stesso corpo, innaturalmente piegata, e sotto la pila che si viene a creare con l’arrivo degli altri giocatori. Tutti coloro che erano nei pressi della pila sentono il suono di ossa che si spezzano, Taylor si alza subito, visibilmente terrorizzato, e chiama a gran voce i soccorsi, lo stadio è ammutolito, i giocatori scioccati.

La TV americana propone immediatamente un replay e mostra quello che sarà poi definito come il più scioccante momento della storia della NFL. Consiglio a chi ha lo stomaco debole di non andarsi a vedere il video perché è davvero spaventoso. Theismann successivamente ammetterà di aver sentito una strana sensazione percorrergli tutto il corpo e di non aver avuto più la sensibilità dal ginocchio in giù, affermerà anche di non aver mai incolpato Taylor per l’infortunio. Il responso dei medici è scioccante: frattura scomposta della tibia e del perone, carriera finita per l’amatissimo quarterback dei Redskins a 36 anni, che tutt’ora ha la gamba destra più corta della sinistra a causa di questo incidente. Fino a quel giorno Theismann aveva perso solamente una partita in otto anni di carriera come quarterback titolare della squadra della capitale.

Questa è la storia di come, dal 18 novembre 1985, il gioco del football sia radicalmente cambiato. L’head coach dei Redskins, Joe Gibbs, creerà degli schemi offensivi apposta per fermare Taylor e si studieranno nuove tattiche di bloccaggio. L’importanza dei tackle offensivi nacque proprio dal bisogno di trovare delle contromisure a questo fortissimo difensore e dal bisogno di proteggere quello che il quarterback non può vedere. Ecco perché oggi, i left tackle, sono il secondo giocatore più pagato della squadra, sono loro garanzia di sicurezza. Dopotutto, appena dopo aver comprato una Ferrari, la seconda cosa a cui pensi è la sua assicurazione. 







lunedì 27 maggio 2013

STEP(H) UP!


Chi erano stati gli ultimi e unici due a segnarne più di 50 al Madison Square Garden? Ah si, niente di che, due da 11 anelli e quasi 65.000 punti nella Lega messi insieme, tali Kobe Bryant (61 nel 2009) e Michael Jordan (55 nel 1995). Ecco poi, chi era quel giocatore che, esultando per una serie impressionante di triple messe a segno (11 nella notte di New York, a una dal record assoluto per singolo match), correva per il campo dandosi alla pazza gioia? Un altro sconosciuto, che si ricordano forse solo a Indianapolis, tale Reggie Miller. Ed infine non ricordo chi è stato quello che ha messo più di 270 triple in una singola stagione? Ah già, nessuno, perché Ray Allen si è fermato a 269 nel 2005/06. Nessuno fino a che, quest'anno, un playmaker da Davidson College, in maglia Warriors, ne ha piazzate 272, di cui 11 nella città della Grande Mela per uno score complessivo di 54 punti. Stiamo parlando di Stephen Curry.



Dopo una carriera sensazionale al college nelle file dei Wildcats, che gli valse numerosi premi oltre a record incredibili, tra cui ricordiamo quello curioso con il fratello Seth per il maggior numero di punti segnati da due fratelli nella NCAA (4.736 per i due Curry), Stephen viene scelto con la settima chiamata dai Golden State Warriors, dove milita tuttora. Dopo il padre Dell, sesto uomo dell'anno nel 93/94, e prima del fratello Seth, che comunque sta lavorando bene a Duke, ecco un altro di questa mirabolante famiglia di cestisti nel mondo NBA. Nella sua stagione da rookie, Curry mette in mostra tutte le sue qualità, chiudendo la stagione con 5 partite oltre i 30 punti e con almeno 10 assistenze, un career high di 42 contro i Blazers e ben 166 triple messe a segno. Solo un grandissimo Tyreke Evans, quarto a riuscire nell'impresa di chiudere la stagione d'esordio con almeno 20 punti, 5 rimbalzi e 5 assist, gli preclude la strada verso il titolo di Rookie of the Year, relegandolo al secondo posto.

La seconda stagione del promettente talento dei Warriors è sui livelli della prima, anzi Curry si toglie 3 soddisfazioni non indifferenti: vince l'NBA Sportmanship Award, come miglior giocatore sui parquet per quanto riguarda comportamento, integrità morale e fairplay; si aggiudica il Taco Bell Skills Challenge nel sabato dell'All Star Game, con il tempo di 28.2, battendo Russell Westbrook; guida la Lega come percentuale ai liberi, migliorando anche il record di franchigia fino al 93,4% con 212-227 dalla lunetta. Altri due aspetti importanti di questa stagione sono subito detti: Steph guida la sua squadra ad un miglioramento di ben 10 vittorie rispetto all'anno precedente, benché non arrivi né il record positivo (36-46) né la qualificazione ai playoff; il ragazzo è costretto a saltare 8 gare in stagione per colpa della caviglia destra, che non gli darà tregua per tutto l'anno seguente. Tanto che, nella scorsa stagione, Curry giocherà solo 26 partite su 66 (non 82 per colpa del lockout), abbassando vistosamente tutte le sue medie e non riuscendo quindi ad aiutare più di tanto i Warriors, che chiuderanno infatti un'annata fallimentare fatta di sole 23 vittorie.

Il suo fisico gracile e una caviglia destra di cristallo hanno portato a pensare che, nonostante delle abilità fuori dal comune, soprattutto oltre l'arco, la sua carriera potesse interrompersi o subire una flessione prematuramente. Curry, però, non è il tipo di persona che si dà per vinta. I suoi allenamenti sono fatti, nella loro parte finale, di 10 minuti consecutivi di canestri da 3 punti, senza interruzione. Avete capito bene, canestri, perché di tiri sbagliati ce ne sono veramente pochi. In questa stagione, detto in precedenza del record incredibile di tiri da 3 segnati, Steph ha tenuto il 45% di media su 7,7 tiri tentati a partita dai 7 e 25, cifre mai ottenute da nessuno prima di lui in una singola annata. Inoltre, il suo gioco è migliorato in maniera vistosa, tanto che ha chiuso la regular season con quasi 7 assist di media e, anche grazie agli investimenti recenti di Golden State, che hanno reso la squadra competitiva per la post season, ha guidato i Warriors ai playoff per la prima volta dal 2007, con il record 47-35, il sesto a Ovest. Nonostante fosse un esordio sui parquet di una serie per tutti i componenti del team, escluso Andrew Bogut, il loro battesimo si è chiuso con un'incredibile vittoria in 6 partite contro i favoritissimi Denver Nuggets, che avevano ambizioni di vittoria anche di Conference, nonostante l'assenza di uno dei loro migliori giocatori, Danilo Gallinari. Per interrompere la striscia di 24 vittorie consecutive al Pepsi Center, in gara 2, Curry ha messo in mostra tutto il suo potenziale, con 30 punti e 13 assistenze, massimo raggiunto in una serie che, comunque, l'ha visto sempre come protagonista assoluto.

Nonostante la sconfitta al secondo turno in 6 gara contro San Antonio, lottando comunque a viso aperto contro i numeri 2 a Ovest, Steph ha sicuramente giocato un'annata strepitosa. L'incredibile esclusione dall'All Star Game lo ha caricato di nuovi stimoli per fare ancora meglio e, ormai, possiamo dire con certezza di trovarci di fronte a un fenomeno assoluto del basket NBA. Se gli infortuni non lo fermeranno, siamo sicuri che ritroveremo Curry a lottare per gli obiettivi che contano e, magari tra qualche anno, anche per aggiudicarsi un anello. E non ci sarebbe nulla da stupirsi nemmeno se arrivassero nuovi record, perché, come è ben leggibile sulle sue scarpe, questo funambolico playmaker non si ferma davanti a nulla: “I Can Do All Things”!

sabato 25 maggio 2013

L'ANGOLO DEL FOLKRORE - DRAMMA BIANCOROSSO AL FORUM : SIENA VINCE A MILANO E CHIUDE LA SERIE



Quando, a 9 minuti dalla fine delle ostilità, JR Bremer segna la tripla che riporta a 10 le lunghezze di distanza tra Milano e Siena, gli 8000 tifosi del Forum si alzano tutti in piedi per caricare la squadra. Ci credono tutti, ci credo anche io, anche se, mentre il playmaker avversario porta avanti la palla oltre la metà campo, il mio vicino di poltroncina smorza un po' il mio entusiasmo: “che resti circoscritto tra noi, ma questo Hackett è davvero forte!”. I due motivi clou di questa frase sono subito spiegati. Daniel, con un'azione incredibile, subisce fallo, segna il canestro da sotto e chiude virtualmente il match, con un 2+1 micidiale mentre il pubblico lo fischia in maniera assordante e impreca, come durante tutto il resto della sua permanenza sul parquet, riscaldamento pre-gara compreso. Hackett, stasera, non è forte, è mostruoso. Ai 25 punti aggiunge 6 assist, una mano glaciale ai liberi e altrettanto calda quando si tratta di penetrare a canestro, un coraggio da vendere e un atteggiamento da assoluto leader che gli valgono un 28 di valutazione. Milano esce dalla partita, subisce un altro parziale negativo e viene umiliata dalla Montepaschi, molto più di quanto dica il punteggio, che comunque mette 10 punti tra le due squadre, ma non esprime la differenza abissale vista nella sera del tracollo definitivo del progetto Scariolo.

Gli unici 3 uomini a finire in doppia cifra tra le file meneghine sono, paradossalmente, tra i peggiori in campo. Bremer (17 punti), detto del canestro della speranza, non aggiunge un solido contributo in difesa, anzi si fa perforare in lungo e in largo da Hackett e Brown, inoltre spreca troppi palloni in attacco, non sapendo bene come costruire un'azione pericolosa, salvo quando gli spazi si allargano a partita ormai chiusa. Langford (18) sembra essersi parzialmente ripresosi dal brutto infortunio, ma non è abbastanza per colui che dovrebbe essere la punta di diamante e la scelta numero 1 in attacco, che, però, troppo spesso cerca l'azione personale e viene fermato dai solidi difensori avversari. Hairston (10) segna due canestri importanti ma si ferma lì, non riuscendo a far spiccare il volo alla sua squadra diversamente da come era accaduto nel resto della serie. I due greci, Bourousis (9) e Fotsis (5), iniziano col botto ma, dopo un primo tempo d'intensità, si spengono alla distanza, senza minuti nelle gambe o punti nelle mani decisivi per le sorti del match. Mentre a Mensah Bonsu (4) sono mancati i 4 tiri liberi sbagliati decisivi nel finale, a Green (2) sono mancati i punti in attacco, nonostante una buona difesa nei minuti giocati che gli hanno permesso di essere l'unico milanese con un plus-minus positivo a fine gara. A deludere su tutti i fronti, invece, sono stati gli italiani: Melli (6), dopo un buon inizio con energia sotto il tabellone, si è completamente assentato dal gioco nella ripresa, mentre Gentile (9, con un terrificante -17 di plus-minus), prima scelta su cui puntare dopo l'infortunio di Langford, ha iniziato senza vedere il canestro e ha chiuso anche peggio, salvato solo da un paio di azioni degne del suo valore. Insomma, l'Olimpia non ha convinto su nessun fronte e la disfatta tra le sue file è stata, purtroppo, completa e assoluta.
E dire che Siena ci aveva provato in tutti i modi a far restare i biancorossi in partita, oberandosi di falli durante tutta la partita, mandando in lunetta svariate volte i giocatori di Milano che hanno però chiuso con un pessimo 23/34 ai tiri liberi, non riuscendo a esprimersi in attacco senza l'aiuto del loro leader Hackett. Fortuna che è rimasto in campo 38 minuti, perché i sostituti Christmas e Rasic hanno fatto davvero una brutta figura, chiudendo con 0 punti e 0 azioni degne di nota. Bobby Brown (17 punti) non è tornato sui livelli del quarantello stampato a Istanbul qualche mese fa (41 punti, record in Eurolega) ma è migliorato dal resto della serie, assicurando un ottimo contributo sia in attacco che in difesa. Carrareto (3) e Kangur (5) sono stati fermati dai falli e da una vena non proprio spiccata al tiro ma non hanno sfigurato nel computo del match. Chi l'ha fatta da padrone, invece, detto del folletto Hackett, sono stati David Moss (14), i cui punti potrebbero valere il triplo per i momenti decisivi in cui sono stati segnati e la cui energia, rabbia, intensità agonistica sono stati encomiabili durante tutta la partita, e Viktor Sanikidze (17), la cui velocità di gioco, elevazione sopra il ferro e ottima mano oltre l'arco hanno garantito a Siena una prestazione fantastica su entrambi i fronti di gioco. La Montepaschi, per quanto non abbia demolito gli avversari, come gli è spesso successo in questi ultimi anni, ha dimostrato ancora una volta di essere una squadra completa ed efficace, in grado di spazzare via quella Milano che sperava di estromettere i sei volte campioni d'Italia in carica dalla corsa al titolo.
Questo ultimo dato, per chi non sia interessato di basket italiano, potrebbe trarre in inganno e smontare la mia tesi di una disfatta drammatica di Milano. Non fatevi però forviare dal fatto che Siena abbia vinto gli ultimi 6 scudetti, tutti per altro dominati in lungo e in largo contro qualsiasi avversario. Quest'estate è finito il ciclo di coach Pianigiani, che è volato in Turchia per allenare il Fenerbache, portandosi con sé uno dei simboli senesi, il playmaker Bo McCalebb. Con il ritiro di Stonerook, vero capitan coraggio e paladino della squadra toscana in tutti i suoi successi, e l’ ammodernamento della squadra in quasi tutti i suoi effettivi, il neo coach Luca Banchi, dalla lunga gavetta proprio alle spalle dell'allenatore azzurro, si è trovato inizialmente spaesato e poco convinto sulle scelte da compiere. A metà stagione, però, tutti i problemi sembravano risolti, anche grazie alla vittoria nella Coppa Italia, salvo poi crollare in un catastrofico finale di regular season, fatto di sole sconfitte per oltre un mese, sia in Italia, dove la Mens Sana ha chiuso incredibilmente solo quinta, sia in Europa, dove, dopo 5 vittorie nelle prime 5 gare, la Montepaschi ha inanellato una serie incredibile di gare perse, uscendo mestamente alle Top 16. Con il 2-0 subito nelle prime due di playoff a Milano, l'annata toscana sembrava potersi rivelare fallimentare sotto tutti gli aspetti.
Milano, da parte sua, non poteva dirsi entusiasta della sua stagione. Dopo aver afferrato con le unghie l'ultimo posto utile per giocarsi la Coppa Italia, ne era uscita sconfitta al primo turno con una pessima prestazione contro Varese. In Europa aveva fatto anche peggio, contando che, con risultati rocamboleschi e al limite del ridicolo, viste soprattutto le rimonte subite negli ultimi minuti, contro le altre compagini del suo gruppo, era rimasta fuori dalle Top 16. In campionato, dopo un inizio difficile in cui era scivolata anche fuori dalla zona playoff, i biancorossi erano risaliti fino al quarto posto con un ottimo finale. Ecco dunque la sfida con Siena, il vantaggio acquisito in casa e i molti, moltissimi soldi spesi da Giorgio Armani sia all'inizio che a stagione in corso, sembravano iniziare a dare i loro frutti. Dopo due brutte prestazioni in trasferta, però, la situazione era tornata in parità. In gara 5 Milano aveva ancora una volta convinto, tanto che, nonostante la sconfitta maturata negli ultimi minuti, grazie ancora ad un immenso Hackett, gara 7 sembrava da condurre in porto in scioltezza, sospinta dai tifosi verso un grande traguardo. Nel momento decisivo, però, come spesso successo negli ultimi anni, l'EA7 non ha saputo mostrare il suo vero valore e si è inchinata alla Montepaschi, uscendo umiliata dalla lotta scudetto.
Ecco ora spiegati i motivi di un tracollo sotto tutti gli aspetti, del dramma sportivo vissuto al Forum mercoledì scorso. Scariolo si è dimesso e speriamo il futuro sia migliore per tutti quei tifosi che sostengono sempre la squadra e soprattutto per quelli che, come non ho potuto esimermi dal fare anche io, a pochi minuti dal termine, all'uscita dal campo del playmaker avversario, hanno applaudito a gran voce la fine di un mostruoso incubo, orchestrato dal mostruoso, per ben altre ragioni, Daniel Hackett.

giovedì 23 maggio 2013

WHAT'S THE NAME: Part 2





Eccoci qui nuovamente per riprendere il nostro viaggio negli “States” alla scoperta dei motivi che hanno portato ai nomi delle attuali franchigie NFL. Dopo esserci riposati in quel di Detroit decidiamo di attraversare il lago Michigan e portarci sulla sponda sinistra per incontrare i Chicago Bears (Orsi). Singolare la storia del loro nome, infatti il proprietario, tifoso della squadra di baseball locale, i Chicago Cubs (Cuccioli), affermò giustamente che i giocatori di football fossero più grandi e possenti di quelli di baseball e perciò da cuccioli sarebbero cresciuti e diventati degli orsi.

Risalendo la costa ovest del lago ci inoltriamo in una baia dove la cittadina che stiamo per visitare è la più piccola ad ospitare una franchigia NFL: i Green Bay Packers (Impacchettatori). Il nome è legato ai loro primissimi anni di vita, infatti, come avviene tutt’ora in Europa negli sport “minori” come basket o pallavolo, uno sponsor forniva il nome in cambio della visibilità; questo sponsor era la ditta di imballaggi “Indian Packing” e anche se rimasero solo per pochissimo tempo ad accompagnare la società, quest’ultima decise di perdurare con questo nome e dunque, da sempre, sono conosciuti come Packers.

Spostandoci in linea d’aria orizzontalmente passiamo dal Wisconsin al Minnesota e nella “città dei laghi” hanno sede i Minnesota Vikings (Vichinghi). Il general manager, tenendo conto del fatto che molti abitanti dello stato sono di origine scandinava, rese omaggio agli antichi guerrieri che tra fine VII secolo e XI secolo si spinsero fino in America del Nord ben cinque secoli prima di Cristoforo Colombo.

Decidiamo ora di allontanarci dalla regione dei grandi laghi e spostarci verso sud, nel Midwest, qui facciamo la conoscenza degli Indianapolis Colts (Ferri di cavallo). L’ex squadra di Baltimore deve il suo nome ad semplice un referendum popolare.

Nella vecchia colonia francese del Missouri, incontriamo i Kansas City Chiefs (Capi) e i St. Louis Rams (Arieti). Se i primi devono il loro appellativo ad una scelta dei tifosi, i secondi lo devono all’udito del loro proprietario. Infatti, leggenda vuole che scelse il nome Rams perché avesse un bel suono; tuttavia esiste anche un’altra versione, ovvero che fu il duro lavoro dei giocatori di football che uscivano da Fordham University, forti come degli arieti, ad ispirarlo.

Un’altra colonia francese è la Louisiana, lo stato del Re Sole, Luigi XIV. La città più importate dello stato è New Orleans e i suoi beniamini sono i New Orleans Saints (Santi). Il nome, preso singolarmente, può essere fuorviante e di difficile comprensione, ma se si considera che “nuova Orleans” è la capitale mondiale del Jazz e una delle più belle canzoni mai composte nel genere è “When the Saints Go Marching In”, spesso abbreviata in “Saints”, allora possiamo facilmente comprendere l’associazione. 

Ci inoltriamo ora nel gigantesco stato del Texas, lo stato country per eccellenza. “The Lone Star State” ospita due squadre, una è tra le più antiche e vincenti, l’altra è la più giovane della NFL: rispettivamente i Dallas Cowboys (non penso ci sia bisogno di tradurre) e gli Houston Texans (Texani). Il primo team fu chiamato così dai proprietari che si rifecero alla cultura popolare, il Texas è infatti la culla dei cowboys con i suoi rodeo e i suoi spettacoli sul Far West. Mentre per la città che ospita la NASA è stato un sondaggio popolare a decidere.

Prima di spostarci definitivamente sulla costa facciamo un salto a Mile High City, casa dei Denver Broncos (Cavalli Selvaggi).  La squadra del Colorado è stata denominata in questo modo dal voto dei tifosi.

La tappa successiva è la calda e desertica Arizona, a Tempe, un sobborgo di Phoenix risiedono gli Arizona Cardinals. Molti credono che il nome derivi da un uccellino, essendo il simbolo del team una testa di un piccolo volatile, però, come affermato orgogliosamente dal primo proprietario, l’origine è dovuta al colore delle maglie, rosso “cardinal” appunto, della squadra che giocava in epoca pre-NFL.

Siamo arrivati sulla “West coast” finalmente, abbiamo in vista l’Oceano Pacifico su cui si riflette il sole della California. Qui hanno la loro base tre franchigie: San Diego Chargers (Scariche Elettriche), Oakland Raiders (Predoni) e San Francisco 49ers. La vecchia squadra di Los Angeles deve il suo nome al proprietario; quando infatti andava a seguire le partite di football della squadra del college sentiva, all’entrata in campo degli atleti, una vera e propria scarica percorrergli tutto il corpo e dunque volle trasmettere questa sua sensazione anche al suo team. Per quanto riguarda invece le due compagini che si affacciano sulla baia di San Francisco, i 49ers e i Raiders, l’una si chiama in questo modo per rendere omaggio agli uomini che parteciparono alla corsa dell’oro nel 1849, l’altra invece ha una storia oscura che cela la nascita del nome, si sa solo che è stato scelto dall’assemblea di soci della società.

Giunti ora alla fine del nostro itinerario non ci resta che visitare l’ultima città e il suo team: i Seattle Seahawks (Falchi di mare). Qui fu un sondaggio popolare a nominarli.

Abbiamo finito dunque il nostro viaggio alla scoperta delle origini dei nomi delle franchigie. Molti sono stati scelti dai tifosi, altri dai proprietari, altri ancora hanno una storia davvero interessante. Spero dunque che questa avventura all’interno degli USA e delle squadre della NFL vi sia piaciuta e vi abbia appassionato. E se non siete ancora tifosi di nessun team chissà che questo articolo non vi aiuti a scegliere quello più giusto per voi!


martedì 21 maggio 2013

LA RIVINCITA DI MARC



Sfido chiunque a sostenere che, al momento della scoperta di Marc Gasol miglior difensore della regular season NBA 2012/2013, non abbia storto il naso o non si sia chiesto il perché di questa scelta. A ben guardare i motivi ci sono e sono pure parecchi, ben visibili ai giornalisti specializzati che lo hanno votato numero uno, come a chiunque sia interessato e appassionato di basket. Lo spagnolo rappresenta una svolta importante e decisiva, finalmente avvenuta tra i premiati per questo riconoscimento. Infatti quest'anno si sono lasciate perdere, almeno in parte, le statistiche di rimbalzi, stoppate e quant'altro per elogiare invece una difesa completa, intelligente e a tratti superlativa come quella di Marc e dell'intera squadra che il catalano guida a prestazioni egregie con grinta ed energia, i Memphis Grizzlies.

Un primo dato salta subito agli occhi se si analizza la sua e la loro stagione: 88.7 punti subiti per gara, la media più bassa tra le franchigie NBA, oltre che notevole, già di per sé, per una squadra giunta quinta nella propria conference e sesta nel computo totale della Lega. I maligni però non vedevano in lui un candidato plausibile per il titolo di difensore dell'anno, vista la presenza di James, dominante sui due lati del campo e miglioratissimo nella fase di non possesso, Ibaka, stoppatore di primo livello e dotato di un'elevazione spaziale per bloccare i tiri avversari e andare a rimbalzo, Noah, il numero uno per intensità di gioco ed energia sotto il tabellone, mentre si erano fatti da parte i recenti vincitori Chandler e Howard, non al top in questa stagione come nelle passate. Lo spagnolo, poco dopo aver ricevuto il premio, non aveva convinto nelle prime due di playoff di Memphis, perse malamente contro i Clippers e con oltre 100 punti di media incassati. Sembrava quindi un premio immeritato, ma solo a prima vista.

La forza di Marc Gasol non sta solo nei 14 punti, 7 rimbalzi, 4 assist (!) e 1 stoppata abbondante di media. Queste cifre, le più basse tra gli ultimi premiati prima di lui, non rivelano a pieno la sua intelligenza cestistica, la sua perfetta capacità di leggere le situazioni senza palla un momento prima per essere sul giocatore marcato e sul pallone un attimo in anticipo per fermare la sua avanzata o l'azione della squadra avversaria. Il fratello Pau è diventato da subito un top player al suo arrivo in NBA conquistando il titolo di Rookie of the Year, mai vinto da Marc, ed è risultato spesso decisivo prima nei Grizzlies e soprattutto poi nei Lakers, con cui ha vinto 2 anelli, ma non ha mai guidato la sua difesa a essere la migliore della Lega e non ha mai mostrato la tecnica difensiva dell'hermanito. La capacità del più giovane dei Gasol di saper contenere l’avversario sui giochi a due e di dare equilibrio e consistenza a rimbalzo sono state premiate dai giornalisti, che hanno visto in lui il giocatore più completo senza palla.

I critici però hanno trovato pane per i loro denti quando Marc è stato escluso dal miglior quintetto difensivo della Lega, votato dagli allenatori NBA pochi giorni dopo l'elezione del premio di Difensore dell'Anno. Solo 5 voti per inserire il catalano nel primo quintetto, a fronte dei 25 di James e dei 17 di Ibaka, suoi principali rivali per l'altro award. Ecco però che, dopo aver demolito i Clippers con 4 vittorie in fila dopo le prime due perse, con una media di punti subiti tornata sui buonissimi standard stagionali, Memphis si trova di fronte Oklahoma City, orfana di uno dei suoi leader assoluti, Russell Westbrook. Gasol ha quindi di fronte Ibaka, colui che, soprattutto, i tifosi avrebbero voluto al suo posto come difensore dell'anno, viste le quasi 3 stoppate a partite e la media a rimbalzo leggermente più alta dello spagnolo di Barcellona. È il momento della rivincita di Marc.

Ibaka è surclassato dal punto di vista del gioco, dimostra una tensione emotiva che non gli permette di essere mai decisivo, parte freddo e negli istanti finali non sembra mai poter dire la sua, mentre Gasol è dominante quando la palla scotta, non si ferma davanti a nessuno e risolve spesso la partita con le sue giocate. Diamo un'occhiata anche alle statistiche. Marc porta al 48% abbondante, con 19 punti di media, la sua percentuale di tiri dal campo, mentre Serge si ferma al 37% con 12 di media. Per stoppate, l'ala grande di OKC non sembra più così lontana, 3.2 contro le 2.8 del centro dei Grizzlies, mentre i rimbalzi sono in parità, 8.4 di media a testa, aggiungendo però che Gasol ruba 2 palloni e in più distribuisce altrettanti assist a partita. Tutto questo porta a uno schiacciante 4-1 per i beniamini della contea di Shelby e a un'eliminazione clamorosa per la testa di serie #1 a Ovest già al secondo turno.

Memphis ora si trova di fronte San Antonio nella sua strada verso il titolo ed è sotto 0-1 dopo il primo match in Texas. Siamo però certi che gli Orsi lotteranno come non mai per raggiungere le Finals e il loro nuovo idolo, Marc Gasol, cercherà in tutti i modi di arrivare a sfidare LeBron James, che molto probabilmente sarà all'atto finale con i suoi Heat, per dimostrare ancora una volta tutto il suo valore e, chissà, magari, rubargli il posto sul trono NBA. 

lunedì 20 maggio 2013

WHAT'S THE NAME: Part 1


 



Un aspetto che da sempre mi interessa degli sport americani, basket e football in particolare, è quello legato ai nomi delle squadre o, per meglio dire, delle franchigie. Al contrario di quanto avviene in Italia e in Europa, accanto al nome della città o dello stato in cui il team risiede è presente un appellativo, a volte originale, a volte banale, ma che è interessante da scoprire. Oggi vi svelerò quelli delle squadre che giocano nella parte est degli Stati Uniti d’America. Partiremo dal nord e seguiremo la costa atlantica fino all’assolata Florida per poi inoltrarci al’interno e raggiungere la regione dei Grandi Laghi.

La prima squadra che incontriamo sono i New England Patriots (Patrioti). Il New England è una territorio che comprende sei stati tra cui il Massachusetts, la cui città più famosa è Boston; proprio qui avvenne l’avvenimento che diede il via alla Rivoluzione Americana nel 1773 e che portò all’indipendenza dalla madre patria britannica, il nome vuole dunque ricordare questo importante avvenimento storico che portò alla formazione degli Stati Uniti d’America.

La tappa successiva sono i due teams della Grande Mela: i New York Giants (Giganti) e i New York Jets (Jets, gli aeroplani supersonici). I primi devono il loro nome alla squadra di baseball omonima che si trasferì in seguito a San Francisco, i secondi alla volontà del loro proprietario che desiderava evidenziare l’ammodernamento dei tempi, eravamo infatti nel 1960, un periodo di grandi innovazioni per l’industria aeronautica.

Arrivati in Pennsylvania ci imbattiamo nei Philadelphia Eagles (Aquile). Il proprietario si ispirò al simbolo del “New Deal” del presidente Franklin Delano Roosevelt, il quale scelse appunto un’aquila per simboleggiare la ripresa economica che avrebbe portato gli USA sulla vetta della politica mondiale. Spostandoci più all’interno nel territorio del “Keystone State” facciamo la conoscenza dei Pittsburgh Steelers (Acciaieri). La città è famosa per la presenza di moltissime industre siderurgiche, il ferro è uno dei metalli più utilizzati e dunque l’associazione è molto semplice.

Scendendo nel Maryland troviamo i Baltimore Ravens (Corvi). La città decise di rendere omaggio ad una grande personalità che ivi spese gli ultimi anni della sua vita: il poeta Edgar Allan Poe. Motivo per il quale la squadra di football trae il proprio nome dalla raccolta di poesie più famosa dello scrittore, “The Raven” appunto.

Entrando nel District of Columbia la nostra attenzione si sposta sui Washington Redskins (Pellerossa). Il loro fondatore volle ricordare un passato che non doveva essere dimenticato e si rifece dunque ad una popolazione indiana del XVII secolo che dovette abbandonare la zona con l’arrivo dei “visi pallidi”.

Spostandoci nel sud degli Stati Uniti, prima in North Carolina e poi in Georgia, incontriamo rispettivamente due squadre con una storia simile: i Carolina Panthers (Pantere) e gli Atlanta Falcons (Falchi). Infatti il nome “Panthers” venne scelto dal figlio del proprietario, mentre “Falcons” fu una decisione presa dai tifosi.

Siamo giunti nella calda Florida che è rappresentata da ben tre franchigie: i Jacksonville Jaguars (Giaguari), i Tampa Bay Buccaneers (Bucanieri) e i Miami Dolphins (Delfini). Per tutte e tre le squadre è stata la volontà dei fans a decretare il loro appellativo.

Dopo una sosta a South Beach riprendiamo il nostro viaggio verso il freddo nord e decidiamo di fermarci nel “Volunteer State”. Nella capitale troviamo i Tennessee Titants (Titani). Anche qui, come per tante altre, è stato un concorso pubblico a nominarli.

Risalendo uno degli affluenti del Tennessee, l’Ohio river, entriamo nel più orientale degli stati del Midwest, dove giocano i Cincinnati Bengals (Le Tigri del Bengala) e i Cleveland Browns. Per i primi fu il proprietario a scegliere  il nome, onorando la precedente squadra di football della città, che si chiamava proprio “Bengals”. Per i secondi invece un sondaggio popolare scelse di ricordare lo storico primo allenatore della franchigia: Paul Brown.

La penultima tappa sono i Buffalo Bills. Come per i Browns si decise di ricordare un singolo uomo: Will “Buffalo Bill” Cody, leggendario personaggio della frontiera che inventò il Wild West Show.

Siamo quindi arrivati al termine del nostro viaggio odierno, giungendo a Motown. I rappresentanti della “città dei motori” sono i Detroit Lions (Leoni). Questi devono il loro nome al fondatore della squadra che affermò: “come i leoni sono i re della giungla, noi vogliamo essere i re della Lega”. Purtroppo per loro però dal 1934 non sono ancora arrivati a giocarsi nessun Super Bowl. 

La prima parte del nostro tour è finita, prendiamoci un meritato riposo e ripartiremo presto alla scoperta dell’Ovest.   



  

  

sabato 18 maggio 2013

L'ANGOLO DEL FOLKRORE - AFFONDA LA BARCA CATALANA: REAL MADRID IN FINALE DI EUROLEGA


A prescindere da come sia andata a finire la finale di Londra contro l'Olympiacos, campione in carica, che ha completato uno storico back to back continentale trionfando ancora domenica scorsa, il Real Madrid si è tolto più di un sassolino dalla scarpa battendo il Barcellona nella semifinale del venerdì e guadagnandosi il primo scontro per il titolo di campione d'Europa addirittura dal 1995.

Viste le quasi contemporanee semifinali del calcio che avrebbero potuto portare a un match tutto iberico tra i due club anche in finale di Champions League, il popolo castigliano e quello catalano già pregustavano una doppia sfida al cardiopalma nei due sport di maggiore interesse del Paese. Le cose non sono andate invece bene nel futbol, che ha visto trionfare le formazioni tedesche opposte a Real e Barca, e quindi non restava che concentrarsi con tutte le forze sulla sfida di baloncesto. Le due compagini si sono affrontate molte volte negli ultimi anni e, sebbene i blancos abbiano vinto alcune delle sfide, sono stati i blaugrana di Xavi Pascual (che prima di venerdì ne aveva perse solo 10 su quasi 40 contro i rivali storici) a portare a casa le partite che contavano, che siano esse finali scudetto o partite di Eurolega. Senza contare le vittorie in coppa del Barca (2) contro le 0 dei madrileni ed il parziale di 7-3 in ambito di trofei nella Liga ACB negli ultimi 15 anni di storia. La semifinale di Londra poteva quindi essere l'ennesima straripante vittoria della gestione Pascual, ma il Madrid non sembrava d'accordo.

Il Barcellona ha i suoi punti di forza nel sempreverde Navarro, capace, soprattutto quando vede blanco sul parquet, di prestazioni straordinarie, come i 33 con un mostruoso 44 di valutazione nel dicembre scorso, nell'ex più illustre, Tomic, centro di grande talento pronto a mio avviso anche per il viaggio oltreoceano, e nella vena non sempre eccelsa di Marcelinho, che oscilla tra l'eccezionale e l'imbarazzante senza soluzione di continuità. Il Real invece ha nel suo roster un super talento come Rudy Fernandez, corteggiato da molte squadre NBA, ma che ha scelto di restare nella squadra che ha sempre tifato dopo il lockout di due stagioni fa, oltre che il folletto Llull, capace di azioni decisive a tutto campo, ma forse troppo discontinuo, e il playmaker Rodriguez, altrettanto abile e altrettanto lunatico nel suo fatturato. La sfida sembrava quindi destinata a essere combattuta sul filo di lana, anche se, a parità di forze in campo, l'inerzia sembrava più nelle mani dei blaugrana per la maggiore esperienza delle sue componenti sui parquet delle Final Four.

Dopo un inizio contratto di tutte e due le formazioni, con i primi 4 punti che arrivano da Tomic in lunetta, sembra essere la squadra di Pascual a prendere il match in mano, anche senza brillare per intensità. Sono però i madrileni a mettere la testa avanti all'intervallo, grazie a un secondo quarto da 28 punti che sono 8 in più del primo e del terzo sommati insieme. È Llull a trascinare la rimonta madrilena, con 3 triple e 11 punti nel quarto, oltre al capitano Reyes, che mostra un assaggio delle sue qualità per il +6 Real al giro di boa. Come detto però il rientro dagli spogliatoi non è però all'altezza della situazione e il Barcellona, guidato dall'ex Tomic, si riporta avanti e, anche vista l'astinenza dal canestro per gli avversari e un magico Marcelinho da 19 punti e mano caldissima dai 7,25, il vantaggio sembra farsi quasi decisivo sul 61-52 a 8 e spiccioli dal termine. Ecco che però il trascinatore in blanco con la fascia da capitano si mette a fare sul serio e infila una serie impressionanti di canestri, mostrando anche una difesa impeccabile su Lorbek e Tomic, aiutato da Rodriguez, che si ferma a un assist (9) dal record all-time nelle Final Four, e mette a disposizione palloni preziosissimi per i compagni. Rudy termina la pratica con un paio di recuperi decisivi e il Real torna avanti, dove resterà fino al finale di 74-67.

Ecco dunque che il parquet esprime un giudizio per la maggior parte giusto, visto ciò che hanno mostrato i bianchi per alcuni tratti del match, al limite della perfezione, e viste le troppe disattenzioni invece del Barcellona, incapace di mordere il match nelle fasi iniziali facendolo suo e, ancor più grave, incapace di chiuderlo nella fase finale, in cui non ha più trovato la via del canestro, ma nemmeno l'intensità di gioco vista nel terzo periodo. I due protagonisti più attesi, Rudy e Navarro, non hanno giocato sui loro standard, ma in un'ipotetica sfida è il primo a spuntarla, grazie alla sua difesa nella frazione finale e a due recuperi fondamentali, mentre La Bomba stranamente non trova punti dopo l'intervallo e spreca numerose occasioni di chiuderla definitivamente. Impressionanti i due playmaker, Rodriguez come assist-man e Marcelinho come finalizzatore, tanto quanto Reyes e Tomic, decisivi nei parziali che hanno portato prima i blaugrana e poi il Real a condurre il match e assolutamente dominanti sotto il tabellone. Un cenno di merito va a Slaughter per i suoi 2 canestri nella parte più delicata della partita dei blancos, capaci di tenere i castigliani attaccati a una semifinale che rischiava di sfuggirgli di mano e allo stoico Jawai, entrato in campo per un paio di minuti, visibilmente infortunato, per dare un aiuto ai suoi nei momenti del recupero Real, anche se il suo sforzo è risultato inutile.

Londra premia il Real, che scrive una vittoria fondamentale nella serie di scontri in ogni ambito, sportivo e non, contro il Barca, che cade, con la seconda semifinale persa in due anni, e che dovrà cercare di rifarsi e di ritrovare lo spirito vincente che l'ha contraddistinto negli ultimi tempi. I blancos invece si “accontenano”, dopo la finale persa, di aver scritto un pezzetto di storia, affondando la barca catalana.

venerdì 17 maggio 2013

PORTLAND ROOKIES BIG (per una volta!)


Quando a Portland si parla di Draft NBA le prime reazioni sono un misto tra sconforto e inquietudine, ma, a ben guardare le scelte dei Trail Blazers nel corso della loro storia, il tutto assume un'aria tra il grottesco e l'incubo. 3 draft sono bastati per lasciarsi scappare 7 mostri sacri, di cui 6 hall of hamer, del basket a stelle e strisce, 9 titoli di MVP delle finali e uno tra i top 3 della lega, attualmente. Pensate a un quintetto Stockton, Jordan, Durant, Barkley, Olajuwon. Ok e come “riserve” mettiamoci Mc Adoo ed Erwing, solo per lasciare spazio alle leve più recenti. Bene, al posto di costoro, i Trail Blazers hanno usato le loro scelte per La Rue, Bowie e Oden. Ecco, ora è più chiaro l'incubo di cui parlavo?

Eppure sembra proprio che quest'anno gli scout dell'Oregon ci abbiamo visto giusto e con la sesta scelta si sono assicurati un playmaker di grandi speranze e, finalmente, non solo quelle. Damian Lillard, da Weber State, ha iniziato la stagione col botto, andando subito in doppia doppia contro i Lakers, per punti (23) e assist (11), diventando solamente il terzo giocatore della storia a riuscire nell'impresa di metterne 20+10 assistenze a referto nella prima gara nella Lega. E non si è fermato alle apparenze, ma ha continuato ad inanellare ottime prestazioni per tutto il corso dell'anno tanto da tenere Portland nelle zone calde per i playoff fino quasi alla fine, quando gli infortuni che hanno falcidiato la squadra e, soprattutto, il quintetto titolare hanno portato ad un filotto negativo che ad Ovest non è ammissibile per chi punta alla post season. Eppure siamo sicuri che senza questi inconvenienti il Rose Garden avrebbe di certo visto i suoi beniamini nelle 8 prescelte.

Dotato di un ottimo tiro dalla distanza e di un gioco inside out altrettanto all'altezza, Lillard è anche un egregio passatore, come dimostra la media di 6.5 assist a partita in regular season. Era dai tempi di Allen Iverson che un playmaker non metteva in scena almeno 1500 punti conditi da almeno 500 assist nella sua stagione d'esordio nella Lega. E The Answer non è proprio uno sconosciuto. La scelta con il numero 6 di un ragazzo così talentuoso poteva portare a pensare a comportamenti indisciplinati o a una scarsa adattabilità al gioco una volta giunto sui parquet che più contano, ma Lillard si è mostrato un ottimo giocatore, pronto per sfondare e per grandissime giocate, come quel buzzer beater al Rose Garden che i tifosi degli Hornets ben ricordano.

Portland, prima degli infortuni a Hickson e Batum, aveva dato filo da torcere a tutti ed era in lotta con Lakers, Jazz e Mavericks per un posto tra le prime 7/8 a Ovest. Il gioco dei Blazers era orchestrato a meraviglia da Lillard, che non ha mai disdegnato nemmeno il tiro da fuori o la penetrazione solitaria, assicurando punti per sé e per gli altri. Accompagnato da un Aldridge per lunghi tratti superlativo, che ha chiuso la stagione ai margini della doppia doppia di media, da un Hickson che ha assicurato centimetri e vitalità sotto canestro anche senza LBJ come compagno e da un Batum energico e spesso decisivo, il rookie da Weber State ha trovato il posto adatto in cui esprimere tutte le sue capacità agonistiche. Però, mentre Matthews come al solito è stato un giocatore fondamentale, in grado con le sue triple di spaccare la partita, gli altri rincalzi non sono stati certamente all'altezza le numerose volte in cui sono stati chiamati in causa, lasciando tutto il peso dell'attacco in mano a Lillard e Aldridge, che hanno fatto del loro meglio per tappare le falle, senza però ottenere un pass per i playoff.

La maledizione dei Trail Blazers per il draft sembra quindi essersi conclusa quest'anno, abbandonati i timori di non essersi lasciati scappare qualche futura leggenda e assicurandosi invece un ragazzo dalle potenzialità enormi che potrà fare ciò che i suoi predecessori non avevano fatto, unendo delle prestazioni concrete alle speranze della partenza. E un paio di settimane fa è arrivata la notizia che tutti, al Rose Garden, aspettavano, per mettere un po' da parte le paure di un incubo iniziato nel 1972: Portland ha il suo rookie dell'anno, Damian Lillard!

mercoledì 15 maggio 2013

BLACK AND YELLOW


 



Pittsburgh, Pennsylvania, 307.484 abitanti, “Steel City”. Se ci si sposta nella zona nord della metropoli, al numero 100 di Art Rooney Avenue, proprio sul fiume Ohio, ci si imbatte in uno dei suoi simboli: l’Heinz Field, uno stadio da 65 mila posti che ogni domenica, da settembre a gennaio, si riempie di persone vestite di giallo e nero che incitano i propri beniamini: i Pittsburgh Steelers. Vi offro solo qualche dato: 6 Super Bowl vinti, 8 titoli di conference, 20 di division, 27 apparizioni ai play-off, in sostanza, sono la squadra più titolata della NFL e sono anche la più antica della AFC. Come se questo non bastasse sono anche la squadra che ha il miglior pubblico della lega e tra i suoi tifosi annota nientemeno che il presidente in carica degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, due famosi rapper come Wiz Khalifa e Snoop Dogg, uno scrittore, John Grisham, e una serie di altre varie personalità del mondo dello sport e del cinema tra cui spiccano Sharon Stone, Burt Reynolds e Jake Gyllenhal.

Per farla breve, gli Steelers, non sono una semplice squadra di football, sono una vera e propria icona dello sport americano. Un team del genere non può che avere i propri simboli, la “Terrible Towel”, un panno di stoffa gialla con le scritte in nero, che è forse uno dei più famosi oggetti in America ed è stato portato in giro per il mondo dai tifosi. Ma i veri e propri emblemi di Pittsburgh e della Steelers Nation sono i loro campioni. Dal 2008, anno dell’ultimo titolo, la squadra guidata da Mike Tomlin è riuscita sempre a rimanere ai vertici della NFL, nell’ultima stagione tuttavia, per la prima volta dal 2006, hanno finito la regular season con un record non positivo, 8 vittorie e 8 sconfitte, il che li ha portati all’esclusione dai playoff. I motivi di questo calo sono da ricercarsi sia nelle perdita di pedine importanti, come il receiver Hines Ward e il linebacker James Farrior, entrambi ritiratisi prima dell’inizio della stagione 2012, sia nella numerosa serie di infortuni accorsi ai migliori giocatori della squadra, Ben Roethlisberger e Troy Polamalu  su tutti. La stagione che incomincerà a settembre non li vede certo come i favoriti, anzi, la maggior parte degli esperti li classifica come la terza forza della division dietro Cincinnati e Baltimore, tuttavia gli Steelers potrebbero essere una sorpresa. Perche?

Se Roethlisberger rimane in salute è uno dei migliori quarterback della lega, il suo modo inconvenzionale di giocare fuori dalla tasca unita alla sua capacità di resistere ai tackles, che rende molto difficile per i difensori riuscire ad eseguire dei sacks, e il fatto che sia in grado di saper fare giocate decisive nei momenti chiave delle partite lo rendono ancora un giocatore di elite. Le fortune degli Steelers dipenderanno da quanto il loro numero 7 sarà in grado di esprimere.

Il corpo dei receivers ha perso Mike Wallace, uno dei fari della squadra e uno dei giocatori più veloci della NFL, ma può contare su giocatori giovani e affamati di vittorie in quanto sia Antonio Brown che Emmanuel Sanders sono anch’essi molto rapidi e possono attestarsi come due solide opzioni nell’attacco dei giallo-neri. Inoltre, per avere maggior efficienza e produzione di yards, molto dipenderà dal recupero all’infortunio al ginocchio del tight end Heath Miller. 

Una bella novità potrebbe essere l’impatto che avrà il rookie running back Le’Veon Bell. Pittsburgh non ha mai avuto un gioco di corse che fosse degno di questo nome, affidandosi molto spesso ai lanci di Roethlisberger, tuttavia l’avanzare dell’età e gli infortuni di quest’ultimo rendono necessario cambiare gli schemi offensivi e il ragazzo da Michigan State, uno dei migliori prospetti nel suo ruolo, potrebbe essere la vera sorpresa di questa stagione.

Passando alla difesa, i linebackers della “Steel City” sono uno dei corpi più aggressivi dell’intera lega. L’anno scorso, pur con un calo notevole di produzione, si sono classificati come quinta squadra per blitz e non a caso sono conosciuti come “Blitzburgh”. La perdita dell’icona James Harrison avrà più impatto a livello di spogliatoio che sul campo, anche perché con la scelta al primo turno del draft 2013 hanno scelto il suo successore: Jarvis Jones. Il prodotto da Georgia è già tra i candidati per il Defensive Rookie of the Year ed è stato il miglior pass rusher d’ America a livello collegiale realizzando ben 14.5 sacks e 24.5 tackles for loss. Se saprà imporsi subito anche in NFL i fan degli Steelers potranno dormire sonni tranquilli. I due inside linebackers sono una garanzia, Lawrence Timmons continua a migliorare e Larry Foote è il leader della squadra per tackles realizzati. Riuscissero a ritrovare anche LaMarr Woodley in forma da “Pro Bowl” potrebbero essere una delle difese più difficili da superare nella prossima stagione. Molto dipenderà anche dalla secondaria dato che i suoi membri migliori, le safeties Polamalu e Clark stanno lottando contro gli infortuni incorsi nelle ultime stagioni, ma, dovessero essere in forma, costituiscono una delle migliori coppie della lega, sono giocatori esperti e vincenti anche se non sono più esplosivi come nel 2008, Polamulu in particolare, e compensano con molta esperienza.

Le due mancanze più notevoli sono sicuramente le due linee, quella offensiva è ancora un cantiere aperto e manca soprattutto una certezza per il ruolo di left tackle titolare, mentre quella difensiva è avanti con l’età e i giocatori più giovani che dovrebbero sostituire i veterani non paiono ancora pronti.

Sommando tutto questo si può affermare come le premesse per una stagione interessante ci siano tutte, anche se difficilmente si arriverà a giocare la partita decisiva di febbraio. A Pittsburgh, in quello stadio sulle rive del fiume, colorato di “black and yellow”, ci si divertirà parecchio quest’anno.