martedì 30 luglio 2013

ROCKET MAN – JAMES HARDEN E' PRONTO AL DECOLLO?



E' il 20 febbraio scorso e a 7 minuti dalla fine di quella che sembra un normale match di regular season, Houston è sotto di 14 contro i Thunder al Toyota Center. I Rockets non possono permettersi di perdere perché sono invischiati nella corsa ai playoff e ad Ovest ogni sconfitta può sempre costare caro se si lotta per l'ottavo posto utile, ma tra loro c'è un giocatore in particolare che quella partita la vuole vincere. Le due triple consecutive di Kevin Martin, l'uomo con cui era stato scambiato l'anno prima e che ne aveva preso il posto ad OKC, spingono James Harden a mostrare tutto il suo incredibile repertorio. Segna in penetrazione subendo fallo, poi rompe in due la difesa per altri 2 facili, segna da fuori ubriacando Ibaka con le finte, colpisce dalla media ed infine difende alla grande su Durant che cerca il pareggio con pochi secondi sul cronometro. Si perché nel frattempo Houston ha stampato un parziale di 21-4 e l'errore del numero 35 mette fine alla partita sul 122-119. Harden chiude con un career-high da 46 punti e 7/8 da 3, conditi con 7 rimbalzi e 6 assist, per una prestazione sontuosa contro la sua ex squadra, davanti al suo nuovo pubblico. Questa è la forza del Barba.

Dopo aver vinto il premio di Sixth Man of the Year con i Thunder nel 2011/12, peraltro a soli 23 anni diventando il secondo più giovane di sempre, ed essere stato coinvolto nella trade che ha avuto come risvolto principale lo scambio tra lui e Martin, Harden a Houston non si è fermato, anzi ha continuato a correre più veloce di prima. Ha iniziato la stagione con 37 punti, 12 assist, 6 rimbalzi e 4 rubate, diventando il primo giocatore di sempre a esordire con un 37+12 e il secondo di sempre come punti segnati alla prima di regular season. Ne segna poi 45 alla seconda contro gli Hawks per un totale di 82 nelle prime due uscite stagionali, quinta prestazione di sempre dopo quelle di Chamberlain (primo, secondo e quarto in questa particolare statistica) e Jordan.

Dopo una lieve flessione di rendimento, Harden, a cavallo di un All Star Game giocato in maniera egregia al Toyota Center (15+6 rimbalzi in 25 minuti d'impiego), mette dapprima a referto la sua prima tripla-doppia contro i Bobcats da 21 punti, 11 rimbalzi e 11 assist e poi il suo massimo in carriera nella partita descritta precedentemente. Il Barba chiude la stagione in maniera superba con 26.3 punti, 6.7 rimbalzi e 4.5 assist di media, numeri straordinari e di molto superiori a quelli dell'anno precedente, partendo sempre da titolare e diventando di diritto non solo l'idolo assoluto dei tifosi dei Rockets, ma anche uno dei giocatori più forti della Lega.

Houston chiude la stagione all'ottavo posto, anche e soprattutto grazie alle sue prodezze, e si trova ad affrontare, guarda un po', proprio OKC al primo turno. Da un ragazzo di 24 anni, alla prima esperienza da leader realizzativo e non solo di una franchigia nei playoff, con un team alle spalle provato dalle ultime fatiche per conquistarsi la post season e che per giunta si trova ad affrontare la propria ex squadra che ha chiuso la stagione da dominatrice, ci si aspetterebbe che venga travolto dalla tensione. Invece Harden sfodera delle prestazioni molto significative e, nonostante i Rockets perdano in 6 gare la serie, si dimostra un giocatore di altissimo livello. Chiude con 26.3 punti, 6.7 rimbalzi, 4.5 assist e 2 rubate di media a partita, dimostrando anche una spiccata personalità nei momenti clou dei match e con la certezza che, se Houston avesse messo al suo fianco un altro giocatore di alto livello, oltre al buon roster che possiede, tutto sarebbe potuto andare diversamente.



Quest'anno però, con l'arrivo di Dwight Howard alla corte texana, la musica potrebbe cambiare e non poco. Se Jeremy Lin dimostrerà di essere tornato quello che fece scoppiare la Linsanity nella Grande Mela, il playmaker di origini taiwanesi con il centro ex Lakers e Harden potrebbe costituire un trio dal talento mostruoso e Houston potrà tornare a sognare in grande. Howard dovrebbe trovare un ambiente ottimale ai Rockets, senza pestarsi i piedi con nessuno com'era successo con Gasol e senza tutte le pressioni che una città come Los Angeles e un compagno come Bryant possono portare, anzi potrebbe far fare quel salto di qualità alla squadra che manca per ambire ai piani alti ad Ovest. Ecco dunque trovato un valido compagno per Harden per spingere a migliorarsi ancora e a crescere per diminuire quei peccati veniali (ad esempio le 4.5 perse a partita nelle 6 contro i Thunder) che sono dovuti alla giovane età e alla fame di vittorie e successi.

Ciò che ha stupito nella scorsa stagione è quanto il Barba abbia evoluto il suo gioco. Da sesto uomo a Oklahoma, dove era abituato a entrare a partita in corsa per spaccare il match o cercare di recuperare lo svantaggio, riuscendo benissimo nel compito come dimostra il premio vinto due stagioni fa, si dedicava maggiormente al tiro dalla media o dal perimetro, ricevendo gli scarichi dai compagni e raramente cercando l'azione personale, anche perché non si trovava mai a giocare da prima scelta offensiva, oscurato da Westbrook e Durant. A Houston la musica è cambiata completamente, Harden si è preso più del doppio dei tiri (1337-629) e ha colpito nella maggior parte dei casi in penetrazione, come dimostrano anche i tiri liberi tentati, ben 792, per una media di più di 10 a partita, leader di queste speciali classifiche nella Lega.


Se la collaborazione con Howard dovesse funzionare al meglio, Lin tornasse utile alla causa e giocatori giovani e di prospettiva come Parsons dovessero confermarsi sui livelli della passata stagione, potete giurarci che a Houston ci sarà da divertirsi quest'anno. Sicuramente l'entusiasmo è alle stelle nella città texana e chissà che Harden, guidando i suoi Rockets, non decolli verso nuovi, eccezionali traguardi.


giovedì 25 luglio 2013

IL MAGO NELLA GRANDE MELA: RITORNO ALLA RIBALTA O DECLINO DEFINITIVO?



Ci ricordiamo troppo spesso di Andrea Bargnani solo per i suoi demeriti o le sue sfortune, che sia per gli infortuni che lo hanno condizionato nell'ultimo periodo o per la sua scarsa propensione a rimbalzo o per il suo essere stato poco decisivo quando contava, tanto con i Raptors quanto con l'Italia. Ciò che dimentichiamo è che il Mago è la prima scelta assoluta del Draft 2006 e che New York ha deciso di puntare su di lui, probabilmente accantonando un campione come Stoudamire al ruolo di gregario di lusso. Qualcosa vorrà pur dire, no?

La verità è che ci troviamo di fronte a un ragazzo di 28 anni che, se recupererà completamente dai malanni delle ultime due passate stagioni, potrà essere un cardine dei Knicks in un team davvero interessante e talentuoso. Dall'alto dei suoi 213 cm di altezza può ricoprire in maniera egregia due ruoli, anche se predilige quello di ala grande. Tira con ottime percentuali dalla media e dalla lunga distanza, ma non è abilissimo a rimbalzo, pecca che lo ha reso tristemente noto nella Lega per le sue magre statistiche a riguardo. Tralasciando per ora gli aspetti negativi, Bargnani ha una mano fatata per un giocatore della sua altezza, ha avuto percentuali da 3 punti intorno al 35% nelle prime 5 stagioni in NBA, segnando nella sua stagione migliore (2010/11) 21.4 punti di media con l'82% ai liberi, tutti numeri di molto superiori alla media nel ruolo.

Ciò che lascia perplessi del ragazzo di Roma e che fa storcere il naso a qualche tifoso newyorkese è che, dopo l'exploit di quell'annata straordinaria, il Mago è stato falcidiato dagli infortuni, giocando solo una sessantina di partite in due stagioni. Nel 2011/12 parte alla grande, alzando le medie della stagione precedente, ma si blocca subito per un infortunio al polpaccio. Al rientro segna 36 punti contro i Suns, ma poco dopo si ferma ancora, salvo poi tornare per 18 match consecutivi che chiude con 16.5 punti a partita. La partita contro i Thunder del 14 aprile chiude anzitempo la sua annata, Bargnani decide di fermarsi per recuperare al meglio nella successiva. Il rientro porta però con sé un nuovo infortunio al gomito, che fa chiudere la passata stagione ad Andrea con sole 35 partite giocate, fatte peraltro di soli 12.7 punti di media e nemmeno 4 rimbalzi per gara.



Bargnani si è trovato in una situazione difficile ai Raptors, in cui è passato dall'essere capitano e leader realizzativo, nonché figura di spicco della squadra, a capro espiatorio di un team che non è mai riuscito a esprimersi ad alti livelli nelle ultime stagioni. Preso di mira dai tifosi per i suoi problemi fisici è stato sostituito velocemente nei loro cuori da Rudy Gay, che gli ha tolto visibilità e importanza nello spogliatoio. Nonostante questo, la squadra della Grande Mela si è privata di Steve Novak, Marcus Camby e Quentin Richardson, pedine importanti nello scacchiere di coach Mike Woodson, oltre che di tre future scelte, due nei secondi round 2014 e 2017 e una nel primo round 2016. Vediamo le possibili motivazioni di questa scelta e come Andrea potrà essere utile alla causa di New York.

Al momento la situazione vede molti uomini di livello a giocarsi il posto: detto di Amar'e, spesso inguaiato dai problemi fisici e che ha problemi ad accasarsi altrove, anche a causa dei 45 milioni di dollari di contratto per i prossimi due anni, il posto 4 è occupato non solo dal Mago, ma anche da Anthony, che, nonostante sia eccezionale soprattutto da ala piccola, gioca benissimo anche da grande nel quintetto con due playmaker, nel ruolo proprio di Andrea . Bargnani potrebbe essere favorito però dagli schemi di Woodson che sembrano poter lasciare molto più spazio a lui di quanto ne avesse Novak lo scorso anno, anche vista la maggior duttilità del romano, in grado di offrire certezze sia da fuori sia sotto canestro. Tutto dipenderà da come andrà la convivenza tra il nostro connazionale e Stat. Di certo il grande deficit del Mago, ovvero i rimbalzi catturati, non saranno più un problema così evidente, data la presenza come centro di Chandler, uno specialista nella categoria. Qualora però sarà impiegato al suo posto, con Stoudamire al fianco o con Anthony in posto 4, ci aspettiamo un salto di qualità da parte di Andrea per dimostrare a tutti il suo valore.

New York non è la piazza più semplice, i riflettori sono sempre accesi sul Madison Square Garden e nessuno può permettersi di sbagliare senza essere punito. Bargnani ha però fame e voglia di rivalsa, vuole dimostrare a tutti che la sua non è stata una prima scelta flop, vuole tornare sui livelli degli anni d'oro a Toronto e anche meglio, per risalire con i Knicks la lunga strada verso il titolo. Che il primo italiano a varcare l'oceano possa essere anche il primo a guadagnarsi un anello? Troppo presto per dirlo, per ora buona fortuna Mago!




mercoledì 17 luglio 2013

CHI E' STATO IL MIGLIOR QUARTERBACK DELL'ULTIMO DECENNIO?



Non è facile determinare se la grandezza e l'importanza di un giocatore, in questo caso di un quarterback NFL, sia data dal numero dei Super Bowl conquistati e da quante volte abbia vinto anche il titolo di MVP in quella finale, oppure dalla quantità e qualità delle sue prestazioni generali, da numeri e statistiche tanto in regular season quanto nei playoff oppure ancora dai record individuali che ha raggiunto nel corso della sua carriera. Mi propongo di fare un'analisi dei più importanti quarterback degli ultimi 10 anni, sui pregi e i difetti di ognuno, sui lati positivi e negativi al tempo stesso, con lo sguardo puntato al futuro, verso le nuove leve che presto arriveranno a dominare la Lega.

Se non si può scegliere con certezza il miglior quarterback dal 2002 ad oggi, di certo però si può dire che la famiglia Manning sia stata la più prolifica di talento da un bel po' di tempo a questa parte, avendo dato alla luce due giocatori di livello assoluto come Eli e Peyton. L'ordine alfabetico o di età sono, a mio parere, gli unici plausibili per ordinarli, in quanto non mi sembra altrimenti possibile decidere chi sia stato il più grande, nonostante la NFL e i suoi esperti definiscano sempre Peyton, non solo come il numero uno tra i due fratelli, ma anche come il miglior quarterback dai tempi di Johnny Unitas e Joe Montana.

Vero è che nei suoi 15 anni nella Lega, 14 nei Colts e 1, per ora, nei Broncos, Manning ha segnato numerosi e importanti record: 6 stagioni di fila oltre le 4.000 yards passate, 11 stagioni in totale oltre le 4.000 yards lanciate, ma soprattutto 4 elezioni a MVP della regular season NFL, oltre che vari riconoscimenti, tra cui quello di giocatore del decennio per Fox Sports nel 2009. Da sottolineare, però, c'è anche che il 37enne originario di New Orleans ha vinto il solo Super Bowl XLI, con titolo di MVP della partita annesso, contro i Bears, ma ha poi perso il XLIV contro i Saints, macchiando un'ottima prestazione iniziale con l'intercetto da touchdown che ha chiuso il match nel quarto periodo. Le occasioni buttate al vento nei playoff da Indianapolis, dopo stagioni regolari eccelse, non sono poche e anche la prima stagione nel Colorado si è chiusa al primo match della post season. Contando che Denver possiede ad oggi un team fortissimo, il maggiore dei fratelli ha però ancora solo un paio di stagioni ai massimi livelli per tornare a conquistare il Lombardi Trophy. Se non ci riuscisse, sarà sicuramente ricordato tra i più forti di tutti i tempi, ma, allo stesso tempo, anche come uno dei meno decisivi nei momenti chiave della stagione.



Eli non ha mai goduto della visibilità del fratello e questo non gli permette, tuttora, di essere molto considerato nelle classifiche stilate dalla NFL, venendo quasi sempre accantonato o valutato meno delle sue effettive capacità. Forse, però, questa scarsa attenzione mediatica è stata proprio la chiave del suo successo. Non ci si ricorderà di lui per le sue imprese statistiche o per i suoi record come per Peyton, almeno non per quanto fatto finora (ha 32 anni e non è di certo un giocatore finito), ma in bacheca il minore dei fratelli ha già i 2 Super Bowl XLII e XLVI ed è uno dei soli 5 giocatori ad essersi aggiudicato almeno 2 titoli di MVP della finale (a 3 c'è però solo Joe Montana). Sono già storia le sue giocate decisive negli ultimi minuti dei due SB a cui ha preso parte, epiche per le situazioni in cui si è trovato e da cui è riuscito a sfuggire per completare giocate che hanno portato i suoi Giants alla vittoria. Se fosse in grado in questi ultimi anni di carriera di vincere ancora, sicuramente la sua gloria sarebbe anche più grande di quella del fratello, anche se già ora è uno dei clutch players più lodati della storia NFL.

Uno dei protagonisti più importanti del decennio e della storia del football è sicuramente Tom Brady. Scelto al sesto giro con la 199° chiamata (!) dai Patriots, ne ha fatto le fortune dal 2001 in avanti. Personalmente considero il ragazzo di San Mateo come il miglior quarterback visto negli ultimi anni, in quanto la sua grandezza non si è limitata alla regular season o ai soli playoff, ma si è espressa al meglio in ogni situazione e contro ogni avversario, anche se sono molto critico nei suoi confronti per non essere mai riuscito a dominare veramente, facendo incetta di titoli, una Lega che poteva cadere nelle sue mani. New England ha avuto un team eccezionale nell'ultimo decennio, che ha conquistato 3 Super Bowl (XXXVI, XXXVIII e XXXIX) in 4 anni e nel 2007 ha vinto 18 partite su 18 prima della finale, ma ha gettato alle ortiche la possibilità di assicurarsi 5 titoli in 10 anni e di chiudere la sua stagione perfetta, perdendo due finali contro gli sfavoritissimi Giants, anche grazie alle imprese del sopra citato Eli. Brady ha conquistato due MVP della stagione regolare (2007, 2010) e due del Super Bowl (2001, 2003), ha raggiunto numerosi record personali e di franchigia e non ha rivali come qualità e talento, ma ha dimostrato di non reggere al meglio la pressione. Quando divenne il più giovane MVP di un Super Bowl nel 2001 e nel 2003 i Patriots non erano i favoriti a vincere il Lombardi Trophy ed è stato in queste 2 occasioni che Tom ha vinto il premio di miglior giocatore della finale, mentre nel 2004 se lo aggiudicò Deion Branch. Nel caso degli altri due atti finali persi da New England, Brady si è dovuto inchinare a Manning e non ha mostrato, tranne a sprazzi, il meglio del suo gioco e della sua personalità, sebbene avesse alle spalle un team spettacolare. Anche nella scorsa stagione la squadra si è presentata ai playoff da favorita e ha perso nella finale di Conference contro i Ravens, poi campioni, una partita giocata con sufficienza e in maniera pessima dal quarterback di San Mateo che si è dimostrato ancora una volta troppo sicuro della sua grandezza e della sua forza, che comunque, nessuno, potrà mai mettere in dubbio.



Chi ha ancora tempo per definire il suo valore nella storia di questo sport è Aaron Rodgers. Il trentenne nativo di Chico ha già stabilito numerosi e grandissimi record nella storia della NFL con la maglia dei Packers: maggior passer rating in una stagione (122.5), più alto passer rating in una stagione con almeno 1.500 passaggi tentati (104.0), più alto passer rating in un'annata di playoff con almeno 500 passaggi tentati (105.5), maggior numero di yard passate da un quarterback nella prima gara di playoff (423), unico quarterback della storia ad aver passato 400 yard, 4 touchdown e segnato 2 touchdown su corsa in una partita, miglior rapporto touchdown/intercetti nella storia della NFL e altri ancora. Ha inoltre vinto il Super Bowl XLV con 304 yards passate e 3 touchdown, che gli sono valsi il titolo di MVP di quella finale. Nella scorsa stagione Green Bay ha perso ai playoff nel Divisional contro i 49ers, ma è pronta a rifarsi nel 2013 e Rodgers è in prima linea per segnare nuovi record e raggiungere ancora la vetta della NFL, per diventare uno dei più forti quarterback di sempre.

Drew Brees è invece un quarterback dal talento assoluto, ma troppo discontinuo. Emblema ne è il titolo di NFL Comeback Player of the Year vinto nel 2004, in cui chiuse una stagione fantastica dopo che ne aveva chiusa una altrettanto scadente l'anno precedente. Con i San Diego Chargers (2001-2005) raggiunse questo e altri traguardi minori individuali e di franchigia, ma fu con i New Orleans Saints (2006-) che arrivarono i maggiori successi. Vinse il Super Bowl XLIV contro i favoritissimi Colts con 32 passaggi completati su 39 per 2 touchdown, uno score mostruoso che gli valse il titolo di MVP della finale e di sportivo dell'anno per Sports Illustrated. Se a questo unite che nel 2011 Brees ha segnato il maggior numero di yards passate in una singola stagione con 5.476 avete la caratura del campione in questione. Da ricordare, però, della sua carriera e di quella delle sue due franchigie non c'è molto altro, a dimostrazione di quanto Drew sia discontinuo e alterni stagioni spettacolari ad altre del tutto anonime, come la scorsa, in cui non ha nemmeno raggiunto i playoff.

Detto di questi mostri sacri che hanno dominato l'ultimo decennio del football nel ruolo di quarterback, molte nuove e talentuose leve si apprestano a prenderne il posto. Primo tra tutti è da ricordare Joe Flacco, campione in carica con i suoi Ravens e detentore dell'ultimo MVP del Super Bowl. I suoi playoff dello scorso anno sono stati maestosi, 11 passaggi da touchdown (record condiviso) e nessun intercetto, tanto che da ottenere un contratto da 120 milioni di dollari per i prossimi 6 anni. Se non si monterà eccessivamente la testa, potrà vincere ancora. Oltre a lui molto attesi sono Andrew Luck e Robert Griffin III, prime due scelte del Draft 2012, che hanno dimostrato di poter fare grandissime cose nella loro prima stagione in NFL, ma hanno entrambi perso al Wild Card Game dei playoff con le loro franchigie, i Colts e i Redskins. Se si confermeranno sui livelli dello scorso anno la post season è assicurata, ma servirà loro un salto di qualità per poter ambire al titolo. Attenzione anche ai Seahawks, che hanno fatto il colpaccio alla chiamata #75 del 2012 assicurandosi Russell Wilson, un quarterback agile, intelligente e senza paura, che potrà portare Seattle nei piani alti della Lega se continuerà sul livello della sua stagione da rookie. Nel recente Draft pochi sono stati i quarterback di qualità presentatisi e, forse, l'unica vera futura stella è quel Ryan Nassib scelto alla #110 dai Giants per fare da riserva a Manning, ma che sembra avere la stoffa del campione. Sicuramente di tutti questi talenti sentiremo ancora parlare nel corso delle prossime stagioni.



Sembra dunque impossibile decidere oggettivamente chi sia stato il vero numero 1 dell'ultimo decennio, così come, se c'è stato, il migliore di tutti i tempi. Ogni quarterback si è distinto a suo modo ed ognuno può trarre conclusioni diverse a giudicare dal suo talento, dai suoi titoli o dalle sue statistiche. E voi quale preferite?


venerdì 12 luglio 2013

L'ANGOLO DEL FOLKLORE – ANDY MURRAY : L'ETERNO SCONFITTO ORA E' UN “BARONETTO” DEL TENNIS MONDIALE


Alla vigilia delle Olimpiadi di Londra 2012 il curriculum tennistico di Andy Murray citava 22 trofei vinti, tutti di valore più o meno modesto, e 12 sconfitte nelle finali giocate, di cui, però, ben 4 negli Slam. Da allora lo stesso elenco racconta di altri 6 tornei vinti e 2 sole sconfitte in finale, ma aggiunge alla bacheca dello scozzese un oro olimpico, uno US Open e una vittoria meravigliosa a Wimbledon. Che dire? L'eterno sconfitto, colui che tra i magnifici 4 del tennis dei giorni nostri (Novak Djokovic, Rafael Nadal e Roger Federer gli altri fenomeni da un po' di tempo a questa parte) era da sempre considerato inferiore, l'anello debole, si è preso qualche rivincita e, oggi più che mai, fa paura a tutti, apprestandosi (forse) a diventare il futuro numero 1 del mondo e ad aggiungere ancora molti trofei al suo palmares.

Il torneo che ha cambiato le carte in tavola, modificando le gerarchie tra Murray e i suoi rivali più agguerriti, è senza dubbio l'Olimpiade dello scorso anno. La Gran Bretagna è presente al gran completo per fare incetta di ori dal profumo casalingo e, nel tennis, la più grande speranza (o forse l'unica) è proprio Andy. Non ha mai vinto un trofeo importante nella sua carriera e tutti sono ancora incerti se sia effettivamente nelle sue corde, se mai salirà sul trono o sarà sempre secondo. I più forti ci sono tutti, tranne Nadal infortunato, ed è tornato a fare faville anche Del Potro, avversario sempre temibile con la sua altezza e i suoi micidiali colpi di diritto. Non è però dalla sua parte di tabellone, in un'ipotetica semifinale lo affronterà Federer. Il dato non è così confortante per Murray perché significa che, se arriverà tra i migliori quattro, a lui toccherà il numero 1 del seeding e dominatore assoluto del tennis in quel momento, Djokovic. Il pensiero di molti è che, quindi, il suo obiettivo sia una medaglia, più probabilmente quella di bronzo, visto che la finale tra il serbo e lo svizzero sembra già scritta.

Murray supera 6-3 6-3 l'ostico Wawrinka, 6-2 6-4 il finlandese Nieminem e rischia non poco al terzo turno con il sempre temibile Baghdatis, sconfitto 4-6 6-1 6-4. Ai quarti Almagro è sconfitto agilmente 6-4 6-1, ma di sorprese, anche nelle altre parti del tabellone, non ce ne sono state, se non l'eliminazione di David Ferrer (testa di serie #4) al terzo turno, che porta Del Potro alle semifinali. Tutto è andato come previsto e Federer al termine di una battaglia epica, conclusasi 3-6 7-6 19-17, ha estromesso l'argentino dalla finale, diventando così il primo tennista ad assicurarsi una medaglia. Andy deve vedersela con il serbo contro cui ha perso 4 dei 6 incontri precedenti e un Australian Open in finale nel 2011. Il pubblico di casa è tutto per lui e lo scozzese non tradisce le aspettative dei britannici, chiudendo con un secco 7-5 7-5 una partita condotta magistralmente. È finale, è medaglia assicurata. Tra lui e la gloria c'è solo colui che è considerato il più forte giocatore di sempre, che ambisce a vincere l'oro olimpico come ultimo tassello per completare un palmares sublime, Roger Federer. La finale è al meglio dei 5 set e sembra prospettarsi come una battaglia tra due tennisti in forma e pronti a giocarsela fino alla fine.

Murray però arriva alla finale carico al massimo, visto che fino ad allora aveva perso solo 1 set e 39 games, e Wimbledon, il campo più famoso e affascinante del mondo, addobbato in versione 5 cerchi per l'occasione, è scatenato al pensiero che possa vincere un suo beniamino. La bolgia britannica, solitamente tifosa dell'elvetico per le sue imprese in terra inglese, questa volta ha il proprio campione da supportare e Andy gioca la miglior partita della sua carriera proprio nella giornata più importante e attesa della carriera. Il punteggio è senza storia: 6-2 6-1 6-4. L'oro finisce al collo del padrone di casa, che riporta la medaglia più ambita in patria nel tennis dopo il 1908 e Murray ottiene la sua vittoria più importante davanti al pubblico festante. La consacrazione è attesa nel successivo Slam, l'US Open e lo scozzese ancora una volta non sbaglia, vincendo il suo primo torneo dei magnifici quattro in finale contro Djokovic in 5 tiratissimi set (7-6 7-5 2-6 3-6 6-2). E' ormai un grande del tennis mondiale e chiude l'anno in terza posizione nella classifica ATP, scavalcando Rafa Nadal.



Quando Andy viene sconfitto in finale all'Australian Open (terza sconfitta in tre finali nella terra dei canguri) dalla rivincita del serbo in 4 set (7-6 6-7 3-6 2-6), ecco che la sua stagione inizia a costruirsi e pianificarsi solo in base al primo e maggiore obiettivo, in primis di un qualsiasi tennista britannico, ma soprattutto di Murray quest'anno: Wimbledon. Vince il Masters 1000 di Miami e poco altro, visto che non partecipa al Roland Garros, vuoi per un piccolo infortunio patito a Roma, vuoi perché la terra rossa non è ancora nelle sue corde e non è il 2013 l'anno giusto per concentrarci troppe energie. Lo scozzese sogna di ripetere l'impresa olimpica, di fronte ai suoi tifosi, e di portare a casa un altro torneo dello Slam, il più prestigioso e ricordato. L'All England Lawn Tennis and Croquet Club è tutto per lui dopo la sconfitta in finale patita nel 2012 da Roger Federer, la più dolorosa e bruciante della carriera di Andy che, però, da quel momento ha iniziato una nuova vita, fatta di gloria e successi.

Lo scozzese è la testa di serie numero 2 del torneo, quindi è nella parte bassa del tabellone, e il pericolo Djokovic, stabilmente al comando della classifica ATP è scongiurato fino a una possibile sfida finale. A rendere il cammino semplice ci pensano gli altri avversari più temibili sulla strada verso la vittoria: Federer (#3) esce sconfitto al secondo turno contro il semi-sconosciuto Stachovskyj, Ferrer (#4) arriva fino ai quarti, ma perde poi la sfida contro Del Potro (#8), Nadal (#5) addirittura al primo turno contro il belga Darcis (che addirittura nemmeno scende in campo il giorno dopo, eliminato quindi senza giocare) e Tsonga (#6) si ritira al secondo turno. Murray, dopo le facili vittorie contro Becker, Y-H Lu, Robredo e Jouzhny senza perdere neanche un set, trova Verdasco nei quarti. Lo spagnolo è da tempo fuori dai top players del seeding ma va sopra di due set sul 6-4 6-3, ma Andy recupera lo svantaggio e lo batte 6-1 6-4 7-5 nei successivi tre set, accedendo alle semifinali. La storia sembra ripetersi quando il polacco Janowicz, alla prima apparizione nella semi di uno Slam, nonostante il tifo tutto contro di lui, si porta avanti 7-6 4-1, salvo poi perdere 5 game in fila e cedere il set 4-6. Il britannico gioca un brutto tennis anche per metà del terzo quarto, subendo le bordate di Janowicz e giocando senza profondità e incisività. Col calare della sera, però, cala anche il sipario sull'esordiente Jerzy, che crolla e perde alla fine in 4 set, con i due parziali decisivi che si chiudono 6-4 6-3 per Murray, che raggiunge la seconda finale di fila sull'erba di casa e, questa volta, sembra davvero poter essere il favorito.

Dall'altra parte Djokovic ha avuto vita più o meno facile, ma in semifinale contro Del Potro ha dovuto lottare in una maratona di 5 set combattutissimi (7-5 4-6 7-6 6-7 6-3) e non ha espresso un gioco allo stesso tempo fluido e potente come suo solito. La finale contro Murray, inoltre, è “in trasferta” perché Wimbledon tifa tutta per il suo beniamino e non nasconde un entusiasmo assoluto per cancellare un'attesa che dura da 77 anni, quando Fred Perry fu l'ultimo britannico a vincere sull'erba inglese. Djokovic ha vinto l'ultima sfida in finale tra i due, ma sembra stanco e debilitato: il primo set gli scappa di mano una prima volta, recupera il break, ma perde di nuovo il servizio e Murray chiude 6-4 con 16 vincenti contro 6 e senza i 17 errori non forzati del serbo. Il secondo set sembra nelle mani di Nole, avanti 4-2 e servizio, che però si incarta da solo con un doppio fallo decisivo e perde il vantaggio, peggiorando poi la situazione innervosendosi e sbagliando ancora sul suo turno di battuta. Lo scozzese chiude 7-5 e la folla è in delirio, il trionfo si avvicina. Break e controbreak si alternano nel terzo set fino al 5-4 Murray e servizio. Sopra 40-0 è a un passo dalla vittoria. Djokovic ha la prima reazione da campione di tutto il match e li annulla tutti e 3. Ha poi due palle del controbreak, che lasciano Londra e i britannici col fiato sospeso. Lo scozzese le annulla e si prende il quarto match point. Un servizio potente e un errore, l'ennesimo, di Nole spedisce Andy in paradiso. Il miracolo che a Wimbledon aspettavano dal 1936 si è compiuto, finalmente. Dopo l'Olimpiade di Londra il ragazzo di Glasgow si prende pure lo Slam più importante. È diventato un campione assoluto.




Nessuno sa dire che cosa succederà ora, se Murray continuerà nella sua striscia straordinaria di successi dell'ultimo anno, se tornerà a essere secondo negli scontri diretti contro i suoi rivali più forti o chissà cos'altro. Sicuramente dalla finale di Wimbledon 2012, da quella sconfitta scottante e mai dimenticata, lo scozzese è cresciuto a vista d'occhio e ora può giocarsi tutti i tornei alla pari anche contro il numero 1 del mondo. E chissà, magari presto, sarà lui a guardare tutti dall'alto al basso della classifica ATP. Complimenti Sir Andy, il nuovo baronetto del tennis mondiale.

giovedì 11 luglio 2013

NEW TOWER IN THE CITY







Negli anni ottanta, in NBA, iniziò a svilupparsi un concetto tattico noto col nome di “Twin Towers”. Gli Houston Rockets furono i primi ad applicarlo ai loro schemi, decidendo di scegliere, prima al draft ’83 e poi al draft ’84, Ralph Sampson (224 cm di altezza) e Hakeem Olajuwon (213 cm), per poter avere una coppia di lunghi decisamente dominante sotto entrambi i canestri. Purtroppo per loro, però, l’esperimento fallì ben presto, a causa soprattutto dei problemi fisici di Sampson che impedì ai Texani di provare a lungo con questa strategia. Tuttavia il concetto non venne totalmente abbandonato nella lega e, alla fine degli anni novanta, fu utilizzato con successo dai San Antonio Spurs di David Robinson (216 cm) e Tim Duncan (211 cm). Lo strapotere fisico che esercitò Shaquille O’Neal nella NBA degli anni duemila contribuì, però, a disperderlo, tant’è che oggi i team preferiscono contare su un solo “big man” sotto il canestro. E il centro, ritenuto oggi da molti analisti, l’erede di Shaq, risponde al nome di: Dwight Howard.

D12 era il pezzo più pregiato della free-agency 2013 e 6-7 squadre hanno fatto di tutto per cercare di convincerlo ad indossare la loro divisa, ma il centrone nativo di Atlanta ha deciso di accettare il quadriennale da 88 milioni di dollari propostogli dagli Houston Rockets. Dal mio punto di vista, vedo molti aspetti positivi in questa acquisizione: prima di tutto la città. Houston non è Los Angeles, è più piccola, ci sono meno pressioni, ha una tradizione non troppo pesante e non è costretta a vincere in ogni singola stagione, l’ambiente ideale per uno come Howard che il meglio di sé l’ha dato in una città, per certi versi simile, come Orlando. Los Angeles l’ha semplicemente inghiottito e ha dimostrato di essere un ambiente troppo duro per lui, troppe richieste, dal punto di vista dell’atteggiamento in campo prima ancora che della produttività numerica, troppe pressioni per un giocatore ancora molto carente dal punto di vista mentale, troppe leggende con cui confrontarsi tra cui Shaq, Kareem e Wilt solo per citare i suoi pari ruolo.    

In secondo luogo l’uomo simbolo del roster. James Harden può essere il suo compagno ideale, sia dal punto di vista tattico, l’anno scorso sfruttava molto le penetrazioni, ma ad OKC ha dimostrato di essere eccellente sia da fuori che appena dentro l’arco, sia dal punto di vista caratteriale, non avendo quella personalità opprimente e quell’ attenzione, quasi maniacale, che ha Kobe in tutti gli aspetti del gioco. Harden non è esigente come il 24 giallo-viola e questo aspetto può giovare a Dwight, permettendogli di essere più sé stesso e con un peso in meno sulle spalle. Inoltre sono convinto che i due condivideranno insieme le pressioni, senza che uno schiacci l’altro.

Terzo punto positivo: la squadra. I Rockets hanno un gruppo giovane e talentuoso, che ruoterà intorno a lui e ad Harden. Questo gli permetterà di fare anche da esempio, non dovendosi misurare con giocatori campioni NBA come Gasol o vincitori di MVP della regular season come Nash. Inoltre potrà giocare liberamente sotto canestro, non dovendo dividere l’area con un altro lungo come ai Lakers, e aprirà molti spazi sul perimetro per i suo compagni.






Non è tutto oro quel che luccica però. Sulla carta Houston è proiettata nell’elite della lega, ma molto dipenderà dal rendimento di Howard stesso. E non sto parlando del fare 20+12 a partita come è abituato, il punto di svolta sarà il carattere che metterà in campo; se riuscirà a dominare le partite, dopotutto dal punto di vista atletico e fisico non ha rivali nel suo ruolo, allora Houston potrà fare la voce grossa ad Ovest, ma se continuerà a giocare superficialmente come ai Lakers, allora i sogni di titolo dei tifosi Rockets potranno restare nel cassetto. Quello che contraddistingue i campioni è la grinta, la voglia di primeggiare, la cattiveria agonistica che mettono in ogni gara, sanno che oltre ai numeri devono dare l’anima se vogliono vincere. Howard deve ancora capirlo, le potenzialità le ha tutte, se recupera bene dal suo infortunio alla schiena, potrà tornare a dominare i pitturati NBA col fisico e coi muscoli e Houston può essere la città giusta per far ricredere i suoi “haters” e i tifosi potranno godersi la loro nuova torre. Ma, dovesse anche vincere un titolo nella franchigia texana, rimarrà sempre il ricordo di aver fallito ad L.A. e non aver domato il ricordo ingombrante di Shaq, dopotutto come ha detto la stessa leggenda dei Lakers: Me l’aspettavo non tutti possono reggere la pressione delle luci della ribalta di L.A. Howard ha scelto la soluzione più semplice e ha optato per una piccola città come Houston. Si, ho detto proprio una piccola città". Che dire, Shaq is always Shaq man!







lunedì 8 luglio 2013

CLUTCHING LIFE – ROBERT HORRY AND THE 7 RINGS


Alzi la mano chi sa qual è l'unico giocatore della storia del basket americano, esclusi i partecipanti alla Dinastia Celtics tra il 1957 e il 1969 (11 titoli in 13 stagioni per i biancoverdi), ad aver vinto 7 anelli di campione NBA. Dai, azzardate qualche nome. Sicuramente starete pensando a Michael Jordan (fermo però a 6) o a Kareem Abdul-Jabbar (6 titoli anche per lui) o qualcuno azzarderà Magic Johson (5 anelli per il play dei Lakers anni '80) o magari Kobe Bryant (5 anche per l'altro idolo losangelino). Scommetto che pochi di voi sapranno, però, la risposta corretta: Robert Horry! Unico giocatore della storia ad aver vinto il titolo con 3 squadre diverse, come solo John Salley, più precisamente è salito sul trono 2 volte con i Rockets (1994-95), 3 con i Lakers (2000-2001-2002) e 2 con gli Spurs (2005-2007). Horry non ha semplicemente girato tra le franchigie alla ricerca di quella vincente nel periodo, giocando in essa solo pochi minuti da riserva di lusso, come va tanto di moda nella NBA attuale, ma è stato decisivo in ogni squadra in cui ha giocato. Ha superato nel 2008 Kareem Abdul-Jabbar come leader per partite giocate nei playoff (244) ed è anche il detentore del maggior numero di triple nelle Finals (53). Inoltre, è stato definito “Big shot Rob” per i suoi innumerevoli e decisivi clutch shots nei momenti più delicati e importanti di numerose partite di playoff. Ecco dunque 7 episodi che hanno reso Horry un mito della storia del basket, 7 come i suoi titoli conquistati in carriera. Partiamo!

22/05/1995 – Western Conference Finals – Houston Rockets @ San Antonio Spurs (Game 1)
Gli Spurs hanno chiuso la stagione regolare con il miglior record a Ovest e hanno strapazzato Denver nel primo turno (3-0), per poi aver ragione dei Lakers al secondo (4-2). I Rockets di Hakeem “The Dream” Olajuwon hanno avuto due turni di playoff infuocati, dopo essersi qualificati sesti in regular season, battendo alla partita decisiva sia Utah (3-2) che Phoenix (4-3). Sarebbe dunque normale aspettarsi una non troppo complessa vittoria degli Spurs nella serie che porta alle Finals. Robert Horry però non è, però, mai d'accordo con le facili previsioni. Il primo match si gioca all'Alamodone di San Antonio. Con 6,5 secondi sul cronometro e i padroni di casa avanti 93-92, il prodotto di Alabama si alza e segna il jumper decisivo che consegna la vittoria a Houston e ammutolisce l'arena. La partita si chiude 94-93 e i Rockets vinceranno la serie in 6 partite, anche grazie a questa fondamentale vittoria esterna. Rob, però, non ha ancora finito di stupire in questi playoff.

11/06/1995 – NBA Finals – Orlando Magic @ Houston Rockets (Game 3)
Detto di come i Rockets hanno raggiunto le finali, all'atto decisivo incontrano i Magic di Shaquille O'Neal, numeri #1 a Est in regular season, che hanno vinto i loro turni di playoff contro Boston (3-1), Chicago, priva di Jordan (4-2) e Indiana (4-3). Houston vince incredibilmente le prime due gare in trasferta, di cui la prima in un match assurdo in overtime, e si appresta a tornare tra le mura amiche per chiudere la serie e aggiudicarsi il secondo titolo consecutivo. A 20 secondi dal termine i texani sono avanti di una sola lunghezza e Olajuwon serve Horry fuori dall'arco. Nonostante la marcatura stretta di Horace Grant, Big shot Rob segna la tripla del 104-100 e mette la partita in cassaforte, tanto che Orlando segnerà da 3, ma la contesa finirà sul 106-103 per i padroni di casa. I Rockets chiuderanno con lo sweep nella successiva gara 4, vincendo l'anello numero due nella loro storia, con Olajuwon ancora MVP delle Finals, ma con un grande ringraziamento anche al loro nuovo idolo, Robert Horry.

10/06/2001 – NBA Finals – Los Angeles Lakers @ Philadelphia 76ers (Game 3)
Cambia casacca, ma non cambia il risultato. Horry gioca nei Lakers, testa di serie numero #2 a Ovest, che ha sbaragliato tutta la concorrenza per giungere alle Finals imbattuta (sconfitta Portland 3-0, mentre Sacramento e San Antonio 4-0) nei playoff. Dall'altra parte però ecco i Sixers, dominatori della stagione regolare a Est, ma in difficoltà nella post-season, dove però hanno sconfitto Indiana (3-1), Toronto (4-3) e Milwaukee (4-3), sudando sette camicie per arrivare in finale. Gara 1 non va secondo le previsioni e, con i 48 punti di Allen Iverson, Philadelphia si aggiudica il match. Dopo aver pareggiato la serie in gara 2, i Lakers vanno nella città dell'amore fraterno sperando di riconquistare il fattore campo. Ecco che con meno di un minuto di gioco e Shaq (poi MVP di quelle Finals) in panchina con 6 falli, Brad Shaw trova Horry nell'angolo per una tripla fondamentale. Canestro e +4 LA a 47 secondi dal termine. Rob non si ferma qui, però, segnando anche 4 tiri liberi decisivi da lì in avanti (lui che aveva solo il 44% dalla lunetta in quei playoff!) per la vittoria finale 96-91 della sua squadra. La serie cambia completamente volto da quella gara e i Lakers vincono agilmente le Finals per 4-1.

28/04/2002 – Western Conference First Round – Los Angeles Lakers @ Portland T.B. (Game 3)
I Lakers, testa di serie numero 3, affrontano nel primo turno dei playoff i Trail Blazers, numero 6 a Ovest. Al meglio delle 5, la serie è sul 2-0 per i ragazzi di Los Angeles, che giocano al Rose Garden per chiudere i conti. A 10 secondi dal termine, però, i padroni di casa sono avanti 93-91 e sembrano avere le mani sulla partita. Ecco però che Kobe Bryant trova Horry sul perimetro per la bomba del sorpasso. Il tiro va a segno e con pochi spiccioli rimasti sul cronometro i Lakers chiudono la partita e la serie sul 3-0. Ma, come nel 1995, il prodotto di Alabama non ha ancora finito di stupire in questi playoff.

26/05/2002 – Western Conference Finals – Sacramento Kings @ Los Angeles Lakers (Game 4)
I Lakers, dopo aver sconfitto Portland come abbiamo visto, hanno eliminato San Antonio in 5 partite per giungere alla finale di Conference, dove si trovano opposti ai Kings, numeri #1 a Ovest, che hanno fatto fuori Utah 3-1 e Dallas 4-1, senza particolari difficoltà. Ecco però che LA espugna l'ARCO Arena in gara 1, salvo poi finire sotto 1-2 e perdere nuovamente il fattore campo in gara 3. Gara 4 è quindi decisiva, se Sacramento vince vola sul 3-1 e può chiudere la serie nella partita successiva in casa. Ciò che succede in quella partita ha dell'incredibile. Con 40 punti nel solo primo quarto, i Kings volano a +24, vantaggio che diminuisce al +14 dell'intervallo e al +7 di fine terzo quarto. Con 11 secondi e spicci sul cronometro sono ancora sopra 99-97. Bryant cerca la penetrazione del pareggio, sbaglia il tiro, rimbalzo O'Neal, errore sul tap-in, Divac cerca di allontanare il più possibile il pallone dal proprio canestro, ma il possesso finisce nelle mani di Horry con 1 secondo rimasto dal termine. Big shot Rob si alza da 3 e ancora una volta trova solo il fondo della retina. Canestro e vittoria Lakers 100-99 in uno dei come-back più incredibili della storia NBA. La serie è pareggiata sul 2-2, ma la bilancia pende tutta dal lato di LA, vista la fantascientifica rimonta, con vittoria allo scadere. Espugnando la capitale della California in gara 7, i gialloviola volano alle Finals 2002, che vinceranno con uno sweep contro New Jersey.



19/06/2005 – NBA Finals – San Antonio Spurs @ Detroit Pistons (Game 5)
Terza maglia per Robert Horry, che però non ha ancora perso il suo vizio per gli anelli. La sua San Antonio arriva in finale, battendo abbastanza agilmente le sue avversarie, 4-1 contro Denver, 4-2 contro Seattle e 4-1 contro Phoenix, dove trova i Detroit Pistons. I campioni in carica hanno a loro volta eliminato Philadelphia 4-1, Indiana 4-2 e Miami (che prima della finale di Conference era 8-0 in quei playoff) 4-3. Gli Spurs vincono le prime due in casa abbastanza facilmente, ma allo stesso tempo subiscono due pesanti sconfitte a Detroit. Sembra sia proprio il fattore campo a essere decisivo per le sorti della serie, ma, come già detto, a Robert Horry i pronostici scontati non piacciono proprio. La partita è intensa, combattuta, finalmente giocata ad armi pari. Per 18 volte si stampa la parità, tra cui quella di 89-89 alla fine dei tempi regolamentari. Detroit nel supplementare è avanti 95-93 e palla in mano, ma Billups sbaglia il layup della vittoria. Con 9 secondi rimasti c'è ancora un'azione da giocare per San Antonio. Rob dalla rimessa passa la palla a Ginobili, che gliela riconsegna nelle mani. Prince vola a cercare di stoppare, ma è troppo tardi. La bomba di Horry va a segno e gli Spurs vincono il match 96-95, ancora una volta grazie a una giocata decisiva di Big Shot. Se non siete ancora convinti del fatto che sia l'uomo dei clutch shots, sappiate che a fine terzo quarto era a quota 0 punti. Ha chiuso con 21, canestro della vittoria annesso. I Pistons si arrenderanno in gara 7 e Robert si metterà al dito il suo 6° anello.

30/04/2007 – Western Conference First Round – San Antonio Spurs @ Denver Nuggets (Game 4)
San Antonio, numero 3 ad Ovest, incontra i Nuggets (6) al primo turno di playoff. Dopo l'iniziale sconfitta all'AT&T Center, nelle due gare successive gli Spurs ribaltano la situazione, portandosi a condurre per 2-1. In gara 4 però la situazione non è semplice per i texani, che comunque si mantengono sopra di una lunghezza a 30 secondi dal termine. A chiudere il match ci pensa come sempre il prodotto di Alabama, con una tripla che porta San Antonio sopra di 4, per poi chiudere il match 96-89 e la serie nel match successivo sul 4-1. Phoenix (4-1 Spurs), Utah (4-1) e la Cleveland di un giovane LeBron James (4-0), non fermeranno gli Spurs dalla conquista del loro quarto titolo, il settimo nella straordinaria carriera di Robert Horry.


I numeri, i canestri e le partite decise da Big shot Rob parlano da sé, non c'è bisogno di aggiungere altro a questi 7 aneddoti straordinari, come alle imprese del giocatore dai clutching shots più decisivi di sempre. Onore a Robert Horry e ai suoi 7, meritatissimi, titoli. Una collezione da invidiare per qualsiasi giocatore, ma anche per tutti gli appassionati di basket. E speriamo riesca ancora a tirare qualche tripla con tutti quegli anelli alle dita!


venerdì 5 luglio 2013

L'ANGOLO TECNICO: NFL ROLES - SPECIAL TEAM






Terzo appuntamento con l’angolo tecnico ragazzi! Come vi avevo preannunciato la volta scorsa, oggi inizieremo a trattare i ruoli. Se vi ricordate bene, avevamo detto che nel football americano esistono 3 squadre: l’attacco, la difesa e lo special team. Ognuna di queste è composta da 11 giocatori, ma tra l’una e l’altra esistono profonde differenze. Per chiarezza espositiva e per facilitarvi il compito di apprendimento ho scelto di trattare le tre squadre in tre articoli separati. Oggi inizieremo dal più particolare: lo special team.

Questo team entra in gioco in tutte quelle situazioni in cui sia previsto calciare la palla (kick-off, punt, field goal o extra point) ed al suo interno sono presenti sia giocatori altamente specializzati, come il kicker o il punter, sia riserve dell’attacco e della difesa, che hanno uno scarso utilizzo nelle loro rispettive squadre e che perciò entrano a far parte dello special. La composizione degli elementi può variare leggermente se si tratta di calciare un field goal, dove verranno schierati giocatori forti fisicamente, capaci di bloccare a lungo gli avversari, o di recuperare (nel gergo si usa la parola “ritornare”) un calcio, dove verranno schierati giocatori più agili e veloci, capaci di muoversi rapidamente su tutto il campo. Solitamente i membri dello special team vengono considerati i meno importanti del roster, perché vedono il campo solo per brevi periodi, risultando  anche i meno pagati della squadra, ma non è raro il caso in cui siano proprio questi uomini a decidere le partite nei secondi finali. Uno dei più celebri a riuscire in questo tipo di imprese è Adam Vinatieri, attuale kicker dei Colts, che piazzò due calci decisivi per la vittoria, sia nel Super Bowl 36 che nel Super Bowl 38, quando ancora giocava nei Patriots.

I ruoli principali di questo team sono sostanzialmente cinque: il kicker, il punter, il long snapper, l’holder e il kick returner. Vediamoli ora uno per uno:

  • Il kicker, detto anche placekicker, è sicuramente il giocatore più importante dello special. Il suo compito è calciare la palla nei kick-off, negli extra points e nei field goals e deve avere sia potenza che precisione. Infatti da lui possono dipendere molti schemi della squadra e, per questo motivo, deve essere in grado di saper misurare la portata del suo calcio a seconda della situazione.
  • Il punter si differenzia dal kicker, sia per le azioni in cui è impiegato che per il modo di calciare. Infatti questi entra in campo solo quando la squadra in possesso, al quarto down, deve far allontanare il più possibile la squadra avversaria; è rarissimo vedere un punter realizzare un punto (l’ultima volta è successo nel 2005), proprio perché il suo compito è più di protezione del territorio che di guadagno. L’altra differenza riguarda il fatto che lui riceve la palla direttamente dallo snap, dunque prende la palla con entrambe le mani e poi la calcia, mentre il kicker tira sempre con la palla posizionata sul “tee”, un piccolo supporto che serve a tenere l’ovale sollevato dal suolo.
  • L’holder è colui che riceve lo snap dal long snapper e posiziona la palla per il kicker. Questo ruolo è ricoperto o dal punter o dal quarterback di riserva e sul terreno si posiziona a 7-9 yard dalla linea di scrimmage.
  • Il long snapper è un ruolo marginale, ma di decisiva importanza nello special. E’ un centro particolarmente abile a lanciare la palla velocemente e precisamente al proprio punter o all’holder. Subito dopo aver eseguito lo snap deve dedicarsi al lavoro di bloccaggio degli avversari. Gli snapper sono molto difficili da trovare, proprio perché poco visibili e altamente specializzati, ma non averne uno capace può comportate seri danni alla squadra, che si ritroverà svantaggiata nei calci, perché uno snap mal eseguito può provocare il fallimento della giocata. 
  • Il kick returner è sicuramente il ruolo più spettacolare tra questi. Il suo compito è posizionarsi il più lontano possibile dal calcio, riceverlo, e cercare di ritornarlo in touchdown attraversando tutto il campo. E’ solitamente anche il più veloce dell’intera squadra e può ritornare sia i kick-off, sia i punt. Deve avere una grande lettura di gioco, riuscendo con la sua agilità e velocità ad individuare gli spazi liberi e correre il più velocemente possibile verso la end zone avversaria. Se un ritorno si trasforma in touchdown è sicuramente una giocata da highlights, perché significa che il giocatore ha percorso tutto il campo, evitando tutti i blocchi e correndo più veloce di qualunque altro. 

La lezione di oggi è sicuramente la più facile delle tre sui ruoli, ma è comunque importante memorizzare queste posizioni, perché molte delle fortune di un team possono dipendere da come venga coordinata questa unità. In futuro guarderemo anche qualche particolare schema che coinvolge lo special team e delle azioni storiche che hanno deciso le partite. Studiate bene in attesa del prossimo appuntamento, il discorso inizia a farsi intrigante!  






mercoledì 3 luglio 2013

LARRY LEGEND : IL BIANCO PIU' FORTE DI SEMPRE


Basta un episodio per definire il talento, la dedizione, la voglia di essere il primo, il migliore, la forza di volontà e la grandezza di Larry Bird . È il 12 marzo 1985 e i Celtics sono a New Orleans a sfidare gli Atlanta Hawks (era normale all'epoca giocare in città dove non esistevano franchigie per dare maggior popolarità alla NBA). Nove giorni prima Kevin McHale aveva dato spettacolo timbrando il nuovo massimo in una partita per un giocatore di Boston, 56 punti contro i Pistons. Dopo due notti si era ripetuto su ottimi livelli, segnandone 42 contro i Knicks. A Bird, l'uomo che doveva avere sempre nelle mani il tiro decisivo, che voleva a tutti costi l'ultimo per sé, che doveva dominare gli avversari con la sua grandezza fatta di semplicità e lavoro, questi exploit non devono essere andati troppo a genio. Ecco perché quella notte, nella città del Jazz, suonò una melodia difficile da dimenticare, che resta tuttora la più grande mai composta da un giocatore dei C's. Con un terzo quarto fatto di 19 punti, tutti segnati con jumper da almeno 6 metri, un quarto periodo in cui ha segnato tutti gli ultimi 16 di squadra e una partita da 22/36 dal campo e 15/16 ai tiri liberi, Bird scrive 60 tondi tondi sul tabellone. McHale è cancellato, nella storia dei Celtics il primo, il migliore deve essere lui, Larry Joe Bird.

Nato nel dicembre 1956 nel cuore dell'Indiana e cresciuto nel French Lick, ha reso famoso il suo luogo d'origine, povero altrimenti di attrattive o di qualsiasi cosa da ricordare, per un soprannome che si affibbiò da solo al suo arrivo a Boston: The Hick (letteralmente, il bifolco) from French Lick. Tanto bifolco, però, non era, tanto che divenne, grazie ad un talento spaventoso, unito ad un'etica del lavoro ferrea e disciplinata e a una voglia di vincere senza pari, probabilmente il tiratore più efficace mai visto su un parquet NBA. Simbolo del basket essenziale, capace di trasformare dei mezzi atletici non eccezionali in una tecnica perfetta, con una mentalità da campione in grado di dare spettacolo, ma allo stesso tempo essere tremendamente efficace. Simbolo, nello stesso tempo, del team player, del go-to-guy come si definirebbe oggi, l'uomo dell'ultimo tiro, della vittoria, ma anche del “vero basket”, quello senza fronzoli, che disprezza l'All Star Game per giocare al massimo tutte le partite che contano davvero, dalla stagione regolare, ai playoff, alle finali senza distinguere l'uno e l'altro match, giocandoli tutti al massimo delle proprie potenzialità.

Cresciuto in uno Stato in cui il basket è l'unico sport che conta, talento mai visto in quel piccolo liceo a Spring Valley, già da giovane dimostrò una capacità di tiro assolutamente fuori dalla media e di non fermarsi davanti a niente e a nessuno. La serata più bella e nello stesso tempo più tragica della carriera liceale di Bird vede il ragazzo segnarne 54 con 38 rimbalzi, con record annessi della Contea, sotto gli occhi di papà, almeno nella seconda parte di partita. Quel padre che, però, finita la partita, si suicida, reduce di una Guerra di Corea che lo ha segnato e sconvolto troppo nel profondo. Nasce da qui la leggenda dell'Uomo Bianco forse più forte di sempre a giocare a basket, qui dove finisce la storia di colui che l'aveva messo al mondo.

Scelto con la sesta chiamata da Boston nel Draft 1978, Bird decise però di passare un altro anno a Indiana State, dove aveva giocato le sue prime due stagioni NCAA con statistiche da record, giusto per compiere un'altra impresa, prima di entrare in NBA. Portò infatti il suo team ad una stagione regolare fatta di 29 vittorie e nessuna sconfitta, arrivando alla finale da imbattuti, per poi essere sconfitti da Michigan State, guidata da Magic Johnson, futuro rivale di Larry sui parquet che contano. Oltre ai 29 punti di media, conditi da quasi 15 rimbalzi e 6 assist a partita di The Great White Hope, la stagione resta tuttora la migliore e più importante per i Sycamore nella loro storia, tanto che il team dell'Indiana non aveva mai e non avrebbe più raggiunto una finale NCAA. Bird era pronto a volare nella NBA, subito da protagonista.

L'impatto fu immediato e i biancoverdi vinsero 32 gare in più rispetto all'anno precedente, con il loro nuovo beniamino che ne metteva 20+10 rimbalzi di media a notte. La nomina, quasi scontata, a Rookie of the Year non rende però a pieno il peso dell'arrivo di Larry nel Massachusetts. Dopo l'era di Bill Russell e della dinastia Celtics che vinse 11 titoli in 13 anni, Boston aveva vinto due titoli nel 1974 e 1976, ma le due stagioni successive erano state tragiche, forse le peggiori di sempre, con un record di molto negativo e i playoff che sembravano un miraggio. La franchigia sembrava destinata a cadere nell'ombra della sua precedente grandezza, ma Bird riportò in auge l' “antico” splendore. Con l'arrivo, nel 1980, di McHale e Parish, a formare quello che è stato definito il più forte frontcourt (centro, ala grande e ala piccola) di sempre, il ragazzo da Indiana State guidò dapprima i Celtics al miglior record nella stagione regolare e successivamente al titolo, anche se l'MVP delle Finals fu Cedric Maxwell.

Bird preparava ogni partita al meglio, per vincere sempre. Lo dimostra il fatto che Boston, dal suo arrivo nel 1979 fece segnare nei 7 anni successivi per ben 6 volte il miglior record in stagione regolare e Larry vinse il titolo di Most Valuable Player della stagione regolare, nelle ultime 3 edizioni. A fermare la cavalcata dei Celtics verso l'anello furono i Philadelphia 76ers di Julius Erving per tre volte nella finale di Conference, mentre in altre 2 furono bloccati dai Los Angeles Lakers nelle Finals, guidati dal rivale di una vita, Magic Johnson. Il duello tra questi due fenomeni della palla a spicchi resterà per sempre nella leggenda del basket americano. L'introverso (ad eccezione del suo trash talking sempre pungente) e operaio Larry incontrò in svariate occasioni l'animato e cinematografico rivale, ma dei loro duelli si ricordano soprattutto le 3 serie di finale tra il 1984 e il 1987, spartite con due vittorie californiane e una di Boston. Nel 1984 si rivide per la prima volta la finale tra Celtics e Lakers, dopo le 6 sconfitte gialloviola in altrettante finali nell'era della Dinastia di Bill Russell. Bird guidò il Celtic-pride alla conquista dell'ennesimo titolo per la franchigia in 7 durissime gare con annesso ulteriore smacco per i losangelini. Fu votato MVP della serie, titolo che aggiunse a quello ottenuto in stagione regolare. Era ormai diventato il miglior giocatore di tutta la NBA.

L'anno successivo, però, le Finals finirono nelle mani dei Lakers, nonostante la schiacciante vittoria in gara 1 a Boston dei padroni di casa, ancor oggi ricordata come il “Massacro del Memorial Day” (+34 alla fine sul tabellone). Il 4-2 fu senza appello e Bird, nonostante continuasse a essere tra i giocatori più forti nella Lega, restò a secco. Il 1986 è l'anno in cui la carriera di Larry raggiunse il punto più alto, così come quella dell'intera storia della franchigia, ed egli espresse il miglior gioco della sua lunga vita di vittorie e successi, sia come intensità che come statistiche. Dopo aver eliminato i Bulls del primo, straripante Jordan la strada fu in discesa, anche grazie al colpaccio dei Rockets che eliminarono gli acerrimi nemici dei Celtics in finale di Conference. Un 4-2 praticamente senza storia sancì il successo della miglior squadra che probabilmente abbia mai varcato le soglie del Boston Garden. L'anno successivo Boston perse il titolo in finale, ancora una volta contro i Lakers di Magic (2-4), e da quell'ultima apparizione all'atto decisivo per lo squadrone guidato dal Bianco più forte di sempre, avrebbe lasciato la leadership ad Est ai Detroit Pistons e ai Chicago Bulls per lungo tempo. Il mito di Bird, però non era ancora destinato a svanire.



Nell'All Star Game del 1986 viene presentato per la prima volta il Three Point Shootout, la gara del tiro da 3 punti. Prima di scendere in campo Bird entra in spogliatoio e chiede agli avversari chi di loro sarebbe arrivato secondo, perché al massimo avrebbero potuto ambire a quel piazzamento. Naturalmente il vincitore fu lui. E non solo quell'anno, perché si ripeté per 3 anni consecutivi fino a quando la sua fragile schiena non iniziò a dargli seri problemi al tiro. Il calvario, iniziato nel 1988, che non permise a Larry di raggiungere altri traguardi importanti coi Celtics, non gli impedì di far parte della più grande squadra di basket di tutti i tempi, il Dream Team americano che conquistò l'oro olimpico di Barcellona 1992, come co-capitano della squadra insieme a Magic Johnson. I due rivali si erano riuniti, come il 3 febbraio 1993, giorno in cui la maglia numero 33 del fenomeno da Indiana State venne ritirata e issata sul soffitto del Garden. Mentre Bird osservava la sua carriera giungere al termine nell'olimpo biancoverde, Magic si toglieva la casacca Lakers per mostrargli una maglia dei Celtics che indossava sotto di essa. I due campioni scoppiarono a ridere davanti a una folla entusiasta. La loro rivalità era cosa da consumare sui parquet, con una palla a spicchi e una vittoria da contendersi, ora c'era solo spazio per la commozione e il ricordo di un duello epico.

Ho ripercorso velocemente una carriera che meriterebbe pagine e pagine per essere raccontata, analizzando solo gli aneddoti più importanti che hanno reso Bird un personaggio da leggenda. Da ricordare, ultimo solo a livello cronologico, che Larry decise di tornare ad Indiana come allenatore nel 1997 ed è tuttora l'unico nella storia NBA ad aver vinto il titolo di MVP della stagione regolare sia come giocatore (1984-86) che come allenatore (1998), oltre ad aver portato i Pacers al miglior record della loro storia (58-24) e alla loro unica apparizione nelle Finals (2000), perse 4-2 contro indovinate un po' chi? I Lakers, rivali di una vita per The Great White Hope. Non serve altro per definire Larry Legend, se non una frase bellissima come quella di Howie Chizek:
Larry Bird lancia semplicemente la palla in aria, dopodiché ci pensa Dio a spostare il canestro per farla entrare”.